giovedì 1 giugno 2023
Dai Treves a Olschki stupisce vedere quanti ebrei, dopo l’Unità d’Italia, hanno aperto case editrici. Un convegno a Milano
Religione del Libro e cura editoriale: un'arte ebraica

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Per una volta (e con il dovuto rispetto) la Bibbia non c’entra. I libri di cui parliamo sono i mille libri che troviamo nelle librerie e nelle biblioteche, che compriamo o passiamo di mano in mano, che leggiamo per diletto o per dovere, di cui alcuni di noi scrivono per professione. Libri che nascono dalla mente e dalle mani di letterati, giornalisti, studiosi e a volte grafomani; che arrivano in una casa editrice per le vie più diverse ma che, prima di essere pubblicati, passano le forche caudine di molti vagli: lettori specializzati, editors, redattori e direttori di collana; le cui bozze vengono corrette una, due e anche tre volte in cerca di refusi e “vedove” (è il gergo, certate su wiki); e poi, stampati, sono esibiti in cerca di chi li compri e, meglio, di chi li legga. Ecco il mondo dell’editoria, pardon, l’industria del libro, una volta in “via dell’artigianato” oggi in “via del digitale”.

In questo mondo, affascinante e ancora profumato di carta intonsa, gli ebrei si sono sempre sentiti a casa. Le prime stamperie italiche a Crema, a Soncino, a Riva del Garda non erano forse state impiantate da ebrei? Non sorprende dunque che, quando il nostro paese venne unificato, molti ebrei si misero anche a “fare libri’” se non a stamparli almeno a promuoverli, curarli e diffonderli. Come tutto ciò sia un fecondo capitolo di storia della cultura italiana, ancora da esplorare, lo hanno compreso le istituzioni promotrici del convegno « Il contributo del mondo ebraico allo sviluppo dell’editoria italiana. Dall’Unità alle leggi razziali» tenutosi di recente nei locali del Memoriale della Shoah di Milano, con la collaborazione della Fondazione Cdec, dell’Università Cattolica e del Centro di ricerca europeo Libro Editoria Biblioteca (gli interventi vedranno la luce in una collana dell’editore Ronzani).

Negli ultimi decenni l’editoria è passata attraverso diverse rivoluzioni, come intuibile, non solo sul piano tecnologico; ma se guardiamo alla storia, specie nei primi settant’anni dello Stato unitario, colpisce l’attiva presenza ebraica di quanti fondarono case editrici dando loro il proprio cognome: i fratelli Emilio e Giuseppe Treves a Trieste e Milano (furono un vero colosso dell’editoria italiana dell’Ottocento, pubblicando tra gli altri De Amicis e Verga); Leo Samuel Olschki di origini prussiane fu attivo tra Verona, Venezia e Firenze; Hermann Loescher, già libraio a Lipsia, la cui casa editrice venne poi diretta per decenni dalla famiglia Pavia; e quell’Angelo Fortunato Formiggini, a cui si deve una fortunatissima collana di testi umoristici – pubblicati in un’epoca, quella fascista, che non sapeva ridere e si prendeva troppo sul serio – e che nel 38 si sentì braccato, e tradito come ebreo italiano, e si gettò per protesta dalla Ghirlandina, la torre del Duomo di Modena.

La stessa Zanichelli di Bologna ebbe un ispiratore d’eccezione come il matematico ebreo Federigo Enriques. E ancora i Lattes a Torino, i Bemporad a Firenze, e i Calabi con le Messaggerie Italiane... fino alle leggi razziali che misero al bando chi nella cultura italiana aveva creduto, e investito, per far entrare l’Italia in Europa e portare la cultura europea in Italia. La ragione di tanta presenza in quei decenni a cavaliere tra i due secoli l’ha spiegata il direttore del Cdec, lo storico moderno Gadi Luzzatto Voghera: « L’emancipazione degli ebrei in Italia liberò risorse intellettuali che fino alla metà dell’Ottocento erano rimaste inespresse. Il binomio ebreo-scrittura, tradotto nella tradizione col concetto di ‘popolo del libro’, ha trovato nell’esperienza dell’Italia postunitaria nuove strade per veicolare cultura e conoscenze a tutti i livelli».

Il convegno ha esplorato quella fase storica, troncata dal secondo conflitto mondiale e dalla Shoah. Tuttavia con il dopoguerra il contributo ebraico al lavoro editoriale è ripreso con nomi altrettanto importanti: il mitico Robi Bazlen, geniale consulente di tutte le maggiori case editrici, di cui narra Daniele Del Giudice ne Lo stadio di Wimbledon (Einaudi) e che, con Luciano Foà, ha fondato la casa editrice Adelphi; Paolo De Benedetti in Bompiani, Garzanti e Morcelliana; e tanti altri ancora oggi attivi nel variegato mondo di chi produce libri al servizio della scuola e del pensiero critico, che resta un bene di prima necessità in ogni società libera. Vero, sul mercato ci sono ora editori ben identificabili come espressione di mondo ebraico: Giuntina, Belforte, Morashà; ma è bene che i nomi storici summenzionati siano ricordati: non sempre allora venivano identificati come ebrei, e il loro contributo fu per amore della sola cultura, della lettura e dello studio al di là di ogni fede o ideologia. Della cultura e basta.

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