martedì 23 maggio 2023
La natura, che pensavamo passiva in mano nostra, invece reagisce, respinge, si “vendica”, distrugge a sua volta i nostri tentativi. Siamo, dice Taussig, in una situazione di re-incantamento
L'antropologo Michael Taussig

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A prescindere dal titolo, L’arte del non-dominio nell’era dello sfaldamento globale che ha dato non pochi problemi a traduttori ed editore italiano (Meltemi, pagine 220, euro 20,00), il libro di Michael Taussig, antropologo per molti anni docente alla Columbia è un testo straordinario. Vi si fondono una ricchissima vita di lavoro sul campo come antropologo in Colombia, una vastissima cultura e base filosofica, un collegamento stretto con la lettura benjaminiana della storia e con i suoi sviluppi messianici e letterari. l titolo in inglese, The mastery of non mastery in the age of meltdown suona molto meglio e richiama immediatamente un dibattito che è molto presente oggi nella riflessione sul cambiamento climatico e sulla catastrofe ambientale. Il meltdown è una parola familiare a chi si è occupato di disastri nelle centrali nucleari. Il non mastery si riferisce invece a una lettura del nostro rapporto con il mondo e la natura che si è rivelato un bluff altamente dannoso: pensavamo di controllare, gestire il mondo con le nostre tecnologie e invece qualcosa, molto più di qualcosa ci è sfuggito di mano.

Oggi di fronte alla catastrofe ambientale ci rendiamo conto di essere padroni di un bel niente se non della capacità di distruggere cicli, ritmi, risorse, specie animali e vegetali, atmosfera, acqua e terra. La novità della lettura di Taussig è che tutto questo è il contrario di quello che pensiamo. La natura, che pensavamo passiva in mano nostra, invece è attiva come un essere umano, reagisce, respinge, si “vendica”, distrugge a sua volta i nostri tentativi. Siamo, dice Taussig, in una situazione di re-incantamento della natura, di ritorno della idea di un mondo che è popolato da forze che non controlliamo e che si comportano in un modo che presuppone un confronto tra presenze, tra ragioni differenti, tra intenzioni differenti.

È l’idea maturata negli ultimi cinquant’anni dagli studi degli antropologi amazzonisti, prima di tutti Eduardo Viveiros de Castro. L’idea del prospettivismo, della presenza cioè nel mondo di “prospettive” diverse, rappresentate da umani e non umani, da forze naturali e intenzioni di esseri differenti che non hanno gli stessi interessi. È quanto, in un altro libro fondamentale per la nostra epoca, racconta Marshall Sahlins nel suo stupendo La nuova scienza dell’universo incantato. L’antropologo statunitense l’ha dato alle stampe poco prima di lasciarci a 91 anni due anni fa ed esce ora in italiano per Raffaello Cortina (pagine 224, euro 21,00). «Gli umani non sono artefici della propria vita e morte, né delle forze che determinano la loro propagazione, crescita e declino, malattia e salute; né delle piante e animali su cui si basa la propria sussistenza né del tempo meteorologico da cui dipende la loro prosperità. Se gli umani fossero essi stessi dei, non si ammalerebbero né avrebbero desideri, e non morirebbero mai. La condizione esistenziale comune è la finitudine umana», scrive Sahlins.

Il libro di Taussig va nella stessa direzione, invitandoci ad accettare che la nostra attuale catastrofica situazione forse è una straordinaria opportunità di riconsiderare il nostro rapporto con il mondo. È l’angelo della storia di Benjamin che, rinculando verso il futuro, ci avverte che qualcosa è cambiato per sempre. La nostra illusione di solitudine imperiale, il capitalismo come superbo produttore di padronanza è a pezzi e sta trascinando con sé tutto. Dietro queste rovine emerge quella che erroneamente abbiamo chiamato natura come un agente attivo al pari di noi. Lo è nella maniera più diabolica e imprevedibile, non è una forza passiva e buona da amare e che ci ama, è qualcosa con cui la nostra finitudine deve fare i conti, perché fa parte della convivenza che ci è imposta dall’essere al mondo. Taussig ci pone dinanzi a un radicale cambiamento di paradigma, quello che in varie fasi della storia mondiale ha prodotto un capovolgimento di prospettiva.

Insieme a Sahlins ci ricorda che la nostra pretesa di padronanza è frutto dell’ossessione di una risicata minoranza occidentale, ma non è condivisa da buona parte dei popoli del mondo. Non solo i mondi indigeni, ma tutte quelle culture che non hanno “devitalizzato” il mondo, non l’hanno separato dalla sua anima (Sahlins dice che è successo quando qualcuno ha affermato che il mondo fosse stato creato dal nulla da Dio, una affermazione che lo ha effettivamente ridotto a nulla, a quella “pura materia” che ha tanto divertito il materialismo del capitale o della lettura marxista del mondo). Taussig ci ricorda che in quest’epoca di disfacimento si può ancora fare molto, si può rianimare, reincantare il mondo, sgonfiando la boria di chi lo ha considerato oramai disincantato in piena rivoluzione industriale. Il pensiero di Michael Taussig, per alcuni versi molto più attuale di quello dei benjaminiani nostrani (non è un caso che non se ne siano nemmeno accorti, ma si sa i filosofi leggono solo i filosofi), arriva finalmente a scuotere dalle radici il dibattito terribilmente povero dell’ambientalismo nel nostro paese, intrappolato tra politichese e Confindustria.

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