venerdì 7 luglio 2017
L’abate di Montecassino prosegue la riflessione sul Padre Nostro: «Mentre lo attendono come un dono, i credenti chiedono anche il coraggio e la forza di collaborare attivamente alla sua edificazione»
“Il Paradiso con le schiere dei beati” (Cappella Bolognini, San Petronio)

“Il Paradiso con le schiere dei beati” (Cappella Bolognini, San Petronio)

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Alla stregua delle altre invocazioni contenute nel Padre Nostro, anche l’invocazione «Venga il tuo regno» va compresa alla luce dell’interpretazione che ne ha dato lo stesso Gesù [...]. Il linguaggio metaforico con cui l’esperienza umana del “regno” e della “regalità” viene trasferita al mondo divino, riveste un ruolo fondamentale nel ministero di Gesù di Nazareth. Tutta la sua predicazione è, infatti, incentrata sul “regno di Dio”, espressione preferita sia dall’evangelista Marco che da Luca [...]. Diversamente da Marco e da Luca, l’evangelista Matteo preferisce parlare di “regno dei cieli”. La formula “regno di Dio”, infatti, ricorre solo quattro volte nel suo vangelo, rispetto a quella di “regno dei cieli” che compare invece trentadue volte. Lo stesso Dio-Padre, nella preghiera del Padre Nostro, è collocato “nei cieli”. Come in Marco, poi, anche nel vangelo di Matteo Gesù inaugura il suo ministero pubblico con le parole: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17).

Occorre inoltre ricordare che l’utilizzo dell’espressione “regno dei cieli”, preferita da Matteo, mostra la sensibilità dell’evangelista nei confronti dell’ambiente giudaico al quale si rivolge. Infatti, utilizzando quell’espressione egli risolve una duplice preoccupazione: quella di sostituire il nome di Dio (che non può essere pronunciato) con il termine “cieli”, da una parte, e quella di porre l’accento sulla dimensione trascendente del regno divino, dall’altra. Questa preferenza per la dimensione spaziale – i “cieli” – intende anche alludere all’esistenza di un luogo che Gesù ci presenta come la nostra vera casa, dove ci attendono le realtà e i beni definitivi, dove la paternità di Dio è manifestata nella sua pienezza, e da dove promanano l’esperienza inesauribile di Gesù e la portata salvifica della sua missione nel mondo. Entrambe le espressioni – “regno di Dio” e “regno dei cieli” – sono comunque accomunate dal fatto che Gesù parla dell’essenza di Dio in termini dinamici, e non statici: Dio viene, il suo regno è vicino. Vi è un movimento di prossimità che affonda le sue radici in un “prima” e che, con l’incarnazione e il mistero pasquale del Figlio Gesù, si è reso a noi manifesto in maniera decisiva. Dio è da sempre vicino all’umanità, e Il suo regno continua a venire e a crescere in mezzo ad essa.

Più specificamente, va ricordato che parlare di “regno di Dio” e di “regno dei cieli” significa far riferimento ad un’alleanza tra Dio e l’uomo, ad un incontro nel quale si attua una sorta di “reciprocità disponibile”, anche se è chiaro che tale reciprocità ha il suo punto di partenza nell’iniziativa di Dio. Del resto, nella stessa invocazione “Venga il tuo regno”, è appositamente utilizzato l’aoristo imperativo in forma impersonale (“ elthéto e basileia sou”), a significare che il protagonista di tale avvento è Dio stesso e non l’uomo. La richiesta fatta dall’uomo nella preghiera indica piuttosto la sua disponibilità a lasciare spazio all’azione di Dio e a non contrapporvisi. Mentre, infatti, dalla sua inaccessibilità Dio, con un movimento discendente, viene incontro all’uomo, quest’ultimo, con un movimento ascendente, aderisce a Dio con il “sì” della fede aprendosi alla sua azione salvifica e testimoniandone la fecondità. Non va, infine, dimenticata la dimensione “interiore” racchiusa nelle espressioni “regno di Dio” e “regno dei cieli”. Come afferma Gesù, il regno è “in mezzo a noi” (cfr. Lc 17,21). Invocarne la venuta significa dunque invocare anche quell’esperienza mistica che si sperimenta al centro del nostro io, in quello spazio interiore dove il Mistero ha posto la sua dimora. Fondamentale, al riguardo, è la consapevolezza che non si può appartenere al regno se non attraverso quell’attitudine interiore che ha nome “povertà di spirito”: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3) [...].

L’invocazione con cui il credente chiede e attende l’avvento finale del “regno di Dio” tocca in profondità anche il cammino di quaggiù. Infatti, mentre attendono il “regno” come un dono, i credenti chiedono anche il coraggio e la forza di collaborare attivamente alla sua edificazione. Scrive sant’Agostino: «Quando diciamo: Venga il tuo regno, il quale – volere o no – verrà senz’altro, noi eccitiamo il nostro desiderio verso quel regno, affinché venga per noi e meritiamo di regnare in esso». Raggiunti e compenetrati dal “regno di Dio”, nel chiederne la venuta, i credenti invocano una sempre maggior presenza di Cristo e del suo Vangelo nella propria vita e in quella dell’umanità. Il “regno di Dio”, infatti, è sì un dono che eccita il nostro desiderio e corrobora il nostro cammino personale (il «regno di Dio è dentro di noi»: Lc 17,20), ma è anche un appello a sentirci responsabilmente coinvolti nella sua crescita attraverso il nostro quotidiano impegno negli spazi della vita sociale e civile, e dunque nella storia nella quale avanziamo spesso con fatica. Impegnarci per il “regno di Dio” richiede che investiamo noi stessi in relazioni nuove, apportatrici di vita e di comunione, di vivere nella libertà autentica, nell’amicizia, nella solidarietà e nella condivisione; di essere profeti che seminano generosamente gesti di riconciliazione e di pace, e che, annunciando lo spuntare dell’aurora oltre l’oscurità della notte, sappiano mantenere viva la speranza di un mondo nuovo. Questo è il motivo per cui invochiamo: «Venga il tuo regno!». Esso deve permeare sempre di più non solo il nostro rapporto personale con Dio, ma anche i nostri rapporti interpersonali. Deve riverberarsi nelle nostre azioni e nei nostri comportamenti, deve diventare testimonianza viva agli occhi del mondo negli ambienti e nelle strutture in cui la nostra vita si dipana.

Vi sono due immagini utilizzate nel vangelo per descrivere il modo con cui i cristiani sono chiamati a contribuire alla crescita del “regno di Dio” sulla terra: quella del sale e quella della luce (cfr. Mt 6,13-16). Sia il sale sia la luce non esistono in funzione di sé, ma in relazione a ciò che è altro da sé. Fuori metafora, i cristiani sono chiamati ad umanizzare il mondo vivendo la prossimità con gli uomini e le donne del nostro tempo e condividendo il loro cammino. Come leggiamo nella Gaudium et spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». L’immagine del sale che dà sapore al cibo dissolvendosi in esso racchiude l’invito per ogni credente a sentirsi parte viva dell’umanità, partecipando al suo cammino con la propria umile e tenace testimonianza, senza lasciarsi allettare da forme di integrismo o fondamentalismo chiuse, grette e magari perfino violente. L’immagine del sale è, però, anche un richiamo all’intelligenza critica della fede, che sa scrutare la realtà mondana e discernere ciò che in essa vi è di autentico, di onesto, di pulito, che sa mantenere vivo il gusto e il desiderio delle cose genuine, buone, belle, vere. Una fede intelligente, non credulona o superficiale; una fede che non si lascia omologare e fagocitare dagli allettamenti del mondo, il quale è sempre pronto a dispiegare il suo fornitissimo armamentario di lusinghe pur di farci deviare dalla novità esigente ma beatificante del vangelo.

Come quella del sale, anche l’immagine della luce va compresa nella sua funzione relazionale e, a differenza del sale, che agisce nascostamente, la luce dice visibilità. Una visibilità che non nasce dal desiderio di apparire o della ricerca dell’ammirazione e del plauso altrui, ma che è il frutto di un impegno a vivere la propria fede in maniera umi-le, coerente e gioiosa, a servizio della vita e dell’acquisizione della vera libertà. Questa consapevolezza è oggi più che mai necessaria. In un mondo in cui la fede cristiana si deve confrontare non solo con aperte ostilità, ma anche con un sottobosco di pseudo-luci effimere, che promettono felicità, ma che in realtà veicolano passioni tristi, incapaci di riempire l’esistenza umana di un senso duraturo, la vocazione del cristiano rimane quella di cercare innanzitutto il “regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,33), e di annunciare e vivere il Vangelo senza vergognarsi e senza lasciarsi intimorire da un clima culturale indifferente o sospettoso.

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