giovedì 17 giugno 2021
Ci si può ammalare anche sognando di essere in un’altra epoca. È il tema del racconto del bulgaro, che inscena una parodia sulla crisi di oggi: dai nuovi nazionalismi ai miraggi della Dolce vita
Lo scrittore bulgaro Georgi Gospodinov

Lo scrittore bulgaro Georgi Gospodinov - Voland

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Anche del tempo ci si può ammalare. Georgi Gospodinov, il più importante e conosciuto scrittore bulgaro, torna nelle librerie con un nuovo romanzo Cronorifugio, nella traduzione di Giuseppe Dell’Agata ( Voland, pagine 320, euro 19, da oggi in libreria), e ci consegna un apologo della pandemia ante litteram nel quale la malattia non è il Covid, ma un fastidioso disturbo della memoria che inibisce a vivere il presente riportando gli uomini continuamente al passato. E qui entra in gioco il coprotagonista del romanzo, Gaustìn, alter ego dell’autore e comparsa irrinunciabile di tutte le sue opere: perché non costruire una 'clinica del passato', un 'cronorifugio', appunto, nel quale ognuno possa ritrovare gli anni in cui è stato felice? A Zurigo, nella Svizzera senza tempo e che per questo «può essere più facilmente popolata con tutti i tempi possibili», in un edificio massiccio e luminoso di quattro piani è ricostruito e rievocato nel dettaglio un decennio del secolo scorso. Vi sono ospitati pazienti affetti da Alzheimer o demenza senile, «quelli che già vivono nel presente del loro passato», ma non solo: ben presto – profetizza Gaustin – «molti cominceranno a scendere nel passato da soli, a perdere la memoria di propria volontà» e lo faranno «per nostalgia dei loro anni felic». Ecco allora innestarsi anche l’ultima fantasmagoria del mago Gospodinov: un referendum sul passato, una controparodia della Brexit in cui ogni nazione europea vota per scegliersi il decennio in cui tornare a vivere. Nel romanzo, godibile e disseminato di folgorazioni acute e divertenti su tanti temi di attualità, c’è anche spazio per un omaggio alla Dolce vita nell’Italia degli anni 60, così come per alcuni debiti di riconoscenza verso grandi scrittori europei, citati o sottintesi, da Tolstoj a Thomas Mann, da Auden a Borges, e poi, indietro, a Sant’Agostino.

In Cronorifugio ricompare Vaisha la cieca, già in un racconto di qualche anno fa: una ragazza con gli occhi rivolti solo al passato o al futuro: da che cosa deriva questa incapacità di vivere il presente?

Quello che era mito e favola nel racconto di Vaisha, in Cronorifugio è diventato diagnosi. Questa sindrome sembra sempre più diffusa: il presente per noi non è più una casa. Ecco perché il passato è diventato un rifugio. Detto altrimenti: siamo diventati i senzatetto del tempo. C’è poi un’altra sindrome: quella della non appartenenza. Nessun posto è tuo, nessun tempo ti appartiene. E questo è un male incurabile.

A differenza delle opere precedenti, in Cronorifugio c’è però un’attenzione maggiore al periodo storico in cui viviamo, al risorgere in tutta Europa dei nazionalismi…

È stato uno degli impulsi che mi ha spinto a scrivere il romanzo. Negli ultimi anni questa ansia incombe sull’Europa. Ho scritto questi parti del libro almeno un anno prima della pandemia, quando non se ne aveva ancora idea. Pensavo al mio romanzo come una ironica distopia e che ciò che raccontavo potesse accadere fra 5-10 anni. Poi improvvisamente tutto è diventato realistico. Come spiegare il diffondersi dei nazionalismi? Forse è diminuita la nostra capacità di resistenza, di immunità rispetto a fenomeni che pensavamo di aver superato. È necessaria una nuova vaccinazione attraverso la cultura e l’illuminazione della ragione.

Nel libro ritorna il tema della malinconia. Che cosa significa per lei?

Non connoto la malinconia in senso negativo: è una qualità che ci rende umani. In Cronorifugio c’è anche molta ironia legata al tentativo di rievocare il passato, di vivere in una rievocazione permanente. Quando c’è un alto livello di ironia, è più difficile che arrivi una dittatura, perché i dittatori non la tollerano, come Hitler o Mussolini. Non puoi sopravvivere in un posto triste senza essere ironico e autoironico, come erano i miei nonni. Di solito le ideologie, inclusi il nazionalismo e il populismo, raggiungono molto presto un incredibile livello di kitsch.

Dopo gli ultimi libri di racconti lei è tornato al romanzo. Mi sembra però che l’approccio alla scrittura e alla composizione narrativa non sia molto diverso…

Come saprete io non credo nei generi puri, proprio come il mio personaggio Gaustìn. Il romanzo è sempre stato ibrido, può incorporare qualsiasi cosa: può essere visto come un labirinto fatto di tante storie. E io racconto storie in modo non lineare, così come accadono nella vita. Ciò che è importante per me, sia nei romanzi che nei racconti, è la conversazione che riesco a stabilire con il lettore. Questo è il filo di Arianna che non ci fa sentire soli e sperduti. Una conversazione senza fine: ecco cosa vorrei facessero i miei libri.

I suoi principali riferimenti letterari?

Direi Borges e mia nonna. Era una donna semplice di un piccolo paese ma nei suoi racconti c’era un pizzico di realismo magico unito a tanta ironia.

Nel libro identifica l’Italia con gli anni 60 e la Dolce vita: che cosa rappresentano per lei?

Gli anni 60 sono il decennio italiano più felice prodotto negli studi di Cinecittà. Chi non vorrebbe vivere in un film? Spesso i ricordi del nostro passato sono fatti dei film che abbiamo visto e dei libri che abbiamo letto. Probabilmente i grandi registi italiani del Novecento hanno inventato i ricordi più felici di tutta la nazione. I migliori registi, proprio come i migliori scrittori, non creano solo film o libri, creano ricordi.

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