sabato 29 maggio 2010
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Di Luigi Fiori, sottobrigadiere del 12° Battaglione, s’intravedono alcune costole e una tibia. Di Luigi Campurra, sommergibilista dello Jalea, spunta invece il retro del teschio. Sui terrazzamenti del Sacrario di Redipuglia la malta grattata via dal tempo lascia scorgere dietro alle solenni targhe bronzee con nomi e cognomi dei caduti quei poveri resti che le autorità civili e militari si preparano ad onorare il 2 giugno per la Festa della Repubblica. Dando sepoltura a 100.187 soldati, infatti, il principale cimitero italiano della Grande Guerra è la cornice deputata per le più alte celebrazioni istituzionali. Ma quelle ossa che il decadimento della gigantesca scalea razionalista progettata negli anni Trenta dall’architetto Giovanni Greppi e dallo scultore Giannino Castiglioni rende visibili apre interrogativi sulla sicurezza della struttura, frequentata ogni anno da centinaia di migliaia di visitatori fra cui scolaresche di ogni ordine e provenienza. Alcuni testi, fra cui La Grande Guerra 1914-1918 del Consorzio Culturale Monfalconese, consultabile pure in Internet, dicono infatti che nel ’34 per sistemare i trentamila caduti onorati nel Cimitero di Guerra sul colle Sant’Elia furono usate casse di eternit. E probabile quindi che quattro anni dopo siano state usate quelle stesse bare per traslare quelle salme nel nuovo Sacrario voluto da Mussolini, affiancandole ai resti dei caduti sugli altri campi di battaglia del Carso. Recipienti di cui oggi non rimarrebbe più traccia. Il tenente colonnello Armando Di Giugno, a lungo anni direttore del Sacrario, parla però di «casse in ferro» e il professor Lucio Fabi, uno dei più accreditati studiosi della zona, di «casse di zinco». Ma questo rende ancor più incomprensibile il loro deperimento. Franco Visintin, responsabile della pro loco di Fogliano Redipuglia e coordinatore dei «Sentieri di Pace», dice di aver sentito parlare di «casse metalliche sigillate nei loculi con lastre di eternit». Se anche così fosse, la visibilità dei resti dimostrerebbe che i diaframmi sono venuti meno. Brevettato nel 1901 dall’austriaco Ludwig Hatschek, il composto di cemento e amianto al tempo era considerato indistruttibile, "eterno" come indica il nome, e quindi il non plus ultra per mettere a dimora i corpi dei caduti in un edificio «che con la sua poderosa costruzione ne assicura la perpetua conservazione», come ricorda ancor oggi la Guida al sacrario edita dal ministero della Difesa. Schierati come una falange in assetto da battaglia dietro ai sacelli dei generali Antonio Chinotto, Tommaso Monti, Giuseppe Paolini, Giovanni Prelli,  Fulvio Riccieri e del Duca d’Aosta, che riposa nella cripta sormontata da un enorme blocco di marmo rosso della Val Camonica del peso di 75 tonnellate, i corpi dei 39.857 soldati identificati della IIIa Armata risalgono le pendici del Monte Sei Busi in 22 colombai sovrapposti fino all’ossario che custodisce i resti dei rimanenti 60.330 compagni ignoti. Il museo del Sacrario, ospitato dalla Casa Terza Armata ai piedi del Colle Sant’Elia, ricostruisce le varie fasi della sua edificazione esponendo foto che mostrano le casse alloggiate negli alveari in attesa di muratura. E che il Regio Esercito sul finire degli anni trenta utilizzasse l’eternit per seppellire i caduti della Grande Guerra lo testimonierebbero anche i resti di alcuni soldati traslati nel ’66 a Redipuglia dal Lago Doberdò dentro casse, sembra, di cemento-amianto poi murate nell’ossario assieme al loro contenuto. Così, quando un fulmine qualche decennio dopo colpì il 17° gradone e si dovettero rimuovere i lastroni di bronzo per riparare il danno, lo spettacolo che si parò agli occhi delle maestranze fu eloquente: il sigillo dei loculi aveva ceduto e nelle cavità si distinguevano chiaramente le ossa; segno evidente che tempo, infiltrazioni ed altri fattori ambientali avevano disfatto i sarcofagi di eternit liberando l’amianto attraverso crepe e interstizi. Un degrado che, data l’età e il critico stato di conservazione, investe probabilmente l’intero monumento. Negli anni la prematura scomparsa di alcuni addetti del sito per malattie riconducibili all’amianto ha rinfocolato gli interrogativi, ma il Ministero della Difesa ha sempre escluso pericoli. Tuttavia nel 2002 fu proprio il Ministero a pretendere eccezionali misure di sicurezza per alcuni restauri alla parte alta della struttura. Le dimensioni del Sacrario lasciano facilmente intendere che se a Redipuglia fossero state usate realmente casse di eternit l’opera di bonifica raggiungerebbe cifre proibitive. Nell’eternit, infatti, la fibra d’amianto costituisce circa il 20% dell’impasto e l’aggressione degli agenti ambientali tende a deteriorare il cemento lasciando affiorare l’asbesto che finisce così col disperdersi nell’aria; il che, considerato un chilo di amianto a cassa, farebbe poco meno di 40 tonnellate. Tenuto poi conto che la deperibilità del materiale in condizioni come quelle del Sacrario può essere stimata attorno ai 30-40 anni, il posto costituirebbe un rischio per la salute pubblica già dagli anni Settanta-Ottanta.
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