giovedì 26 novembre 2015
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Sembra una notizia sensazionale, rivoluzionaria. Un’équipe di archeologi, dopo un’indagine durata ben quattro anni sotto la guida del professor Robert Gilchrist della Reading University, sarebbero riusciti ad appurare che il sepolcro di re Artù, che si supponeva trovarsi nel luogo nel quale un tempo sorgeva l’abbazia benedettina di Glastonbury, nel Somerset, è in realtà un falso. Gli archeologi avrebbero in effetti localizzato una fossa che i loro studi assicurano corrispondente a quella che avrebbe dovuto contenere il sepolcro: ma è vuota e le sue dimensioni sono insufficienti ad accogliere un corpo inumato. Secondo la leggenda, re Artù sarebbe stato sepolto nel luogo stesso nel quale sarebbe poi sorta la più antica chiesa d’Inghilterra: un luogo prescelto per il fatto che là sarebbero giunti Gesù e Giuseppe d’Arimatea, il quale avrebbe ivi piantato un albero che da allora fiorisce ogni anno a Natale e un ramoscello del quale viene portato ogni volta in dono alla regina Elisabetta. In effetti, qualcosa di sensazionale in questa notizia c’è sul serio. Non tanto la localizzazione del supposto sepolcro, o di quel che ne rimane, che se fosse confermata avrebbe senza dubbio un suo interesse.  Gli archeologi avrebbero trovato le prove, in pratica, della falsa antichità della chiesa di Glastonbury, la quale sarebbe stata edificata non agli inizi della cristianizzazione dell’Inghilterra ma dai monaci benedettini che, dopo un incendio della loro abbazia nel 1184, avrebbero diffuso la leggenda sia dell’albero di Giuseppe d’Arimatea, sia della sepoltura di Artù. Cerchiamo di ristabilire il senso e la proporzione delle cose. L’abbazia di Glastonbury venne identificata nella mitica Insula Pomorum, l’Avallon delle leggende celtiche, in pieno XII secolo, ben prima dell’incendio del 1184, dai mitografi di corte del plantageneto Enrico II la figlia del quale e della celebre Eleonora d’Aquitania, Maria di Champagne, era la protettrice di Cristiano di Troyes, l’autore pochi anni prima del romanzo in versi Perceval . Verso la metà del XII secolo i sovrani angioino-plantageneti stavano costruendosi un grande regno che, oltre all’Inghilterra, comprendeva gran parte della Francia. Il matrimonio tra Enrico II ed Eleonora d’Aquitania, nel 1152, giunse a sigillare un vasto programma egemonico: ora il regno di Luigi VII di Francia – che di Eleonora era stato il primo marito, e del quale il re d’Inghilterra era a vario titolo vassallo per i territori francesi – era molto meno esteso di quello del rivale d’Oltremanica, per quanto Luigi continuasse a esserne per vaste aree il signore feudale. Tale situazione generava uno stato di tensione e di emulazione continua, cui dev’esser aggiunto il disagio della monarchia angioino-plantageneta che regnava su quell’Inghilterra ch’era l’antica Britannia, nella quale i germani anglosassoni si erano sovrapposti ai celti e quindi, nell’XI secolo, i normanni (scandinavi francesizzati) agli anglosassoni. Era dunque necessario per la dinastia anglofrancese rintracciare (o inventare) un precedente tanto dei celti insulari e degli anglosassoni quanto dei normanni capace di nobilitare e avvicinare entrambe le stirpi delle due sponde della Manica. E che al tempo stesso, per antichità e per sacralità, potesse competere tanto con la monarchia francese – che aveva i suoi centri sacrali in Reims, dove si conservava la Sacra Ampolla dell’olio recato dagli angeli con cui si ungevano i sovrani, e nell’abbazia di Saint-Denis, che custodiva il vessillo direttamente concesso da Dio a Carlomagno, l’Orifiamma – quanto con lo stesso impero romano-germanico, che trae- va la sua sacralità dalla Cappella Palatina d’Aquisgrana, dove riposavano le reliquie di Carlomagno. I sovrani romano-germanico e francese traevano pertanto entrambi dal culto del grande sovrano franco dell’VIII-IX secolo. I re anglofrancesi ebbero a quel punto la geniale idea di creare un emulo delle tradizioni sacrali francesi e germaniche individuandolo in un antico sovrano celtico (o celtoromano) cristianizzato, situabile verso il V secolo quando Roma aveva abbandonato la Britannia, negli antichi sovrani celtici cristianizzati, dei quali si diceva che i bretoni attendessero fedelmente il ritorno alla Fine dei Tempi. Era la leggenda escatologica di Arcturus, rex quondam, rex futurus. Oggi si tende a ritenere che il nucleo storico dell’esistenza di un Arcturus Rex effettivo personaggio storico risieda nella figura di un funzionario romano della Britannia, Lucius Artorius. Le tradizioni arturiane sarebbero state raccolte verso il 1135 dalla Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, al quale s’ispirò Guglielmo di Malmesbury per la seconda edizione di un suo scritto, il De antiquitate Glastoniensis Ecclesiae, redatto tra il 1135 e il 1137 e nel quale la leggenda arturiana appare nella sua sostanziale interezza. Per Artù era necessario un centro sacrale che potesse rivaleggiare con Aquisgrana e con Saint-Denis: l’abbazia di Glastonbury nel Somerset, dove nel 1191 furono “scoperte” (una inventio, in termini tecnici) le tombe del re Artù e della regina Ginevra e che fu identificata con la leggendaria terra di Avalon. Che i benedettini di Glastonbury, sette anni dopo il disastroso incendio dell’abbazia che doveva essere riparata, si siano prestati di buon grado alla divulgazione della leggenda, appare del tutto ovvio. Pressoché in contemporanea, tra 1181 e 1190, Cristiano di Troyes compose il suo ultimo romanzo, il Perceval, ou le Conte du Graal, nel quale la leggenda arturiana si univa al tema del misterioso Graal. Nessuna traccia di Giuseppe d’Arimatea fino a questo momento. La commistione è posteriore di un decennio, quando il Perceval di Cristiano, incompiuto, venne ripreso da altri autori. Fra questi il piccardo Roberto di Boron che scrisse in versi il Roman de l’Estoire du Graal, noto anche sotto il titolo di Joseph d’Arimathie. Il testo si discosta molto da quello di Cristiano e si ispira piuttosto a un testo evangelico apocrifo, il Vangelo di Nicodemo, fondato sulla Passione e sull’Eucarestia. In tale racconto si narra il trasferimento del sacro vaso in cui Gesù aveva celebrato l’Eucarestia nel corso dell’Ultima Cena da Gerusalemme in Inghilterra. È dunque un’altra tradizione, pure di successo, che ha come sfondo la translatio della sacralità da Oriente a Occidente, tipico di un’età di crociata. Gerusalemme era stata appena perduta (nel 1187) e tanto il re di Francia quanto quello d’Inghilterra si erano impegnati in quella che chiamiamo la “terza crociata”. Questo il quadro che dà un senso alla scoperta archeologica recente. Ch’essa sia o no attendibile, sta al vaglio della critica il dimostrarlo.
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