martedì 8 agosto 2017
In attesa della decisione della Corte europea sui tragico caso degli “incappucciati”, parla il sacerdote di Armagh che per primo negli anni 70 denunciò gli abusi perpetrati dai militari britannici
Padre Murray: «I cattolici torturati dall'esercito come a Guantanamo»
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L’ultimo grande difensore dei diritti umani d’Irlanda vive nella cittadina di Armagh, in un piccolo quartiere di recente costruzione situato ai piedi della cattedrale di San Patrizio, sede primaziale di tutta l’isola. Monsignor Raymond Murray ha oggi più di ottant’anni e dopo aver speso la sua intera esistenza a denunciare le torture nelle carceri, gli omicidi extragiudiziali e gli errori giudiziari che hanno solcato il più lungo conflitto europeo dell’era moderna, attende da un mese all’altro la sentenza che potrebbe suggellare una vita di battaglie. A breve la Corte europea dei diritti umani dovrebbe pronunciarsi sul caso degli “incappucciati” (Hooded Men), quattordici cittadini cattolici dell’Irlanda del Nord che nel 1971 furono arrestati dall’esercito britannico senza alcuna accusa a loro carico e sottoposti per giorni a brutali tecniche di privazione sensoriale. «Londra aveva appena introdotto l’internamento senza processo per punire la popolazione dei ghetti cattolici che rivendicava i propri diritti e in un giorno d’agosto oltre trecento persone furono arrestate indiscriminatamente», ricorda padre Murray. «Quei quattordici uomini furono torturati a lungo, costretti a stare in piedi per ore con le gambe e le braccia divaricate, sottoposti a un costante e assordante rumore metallico, privati del sonno, del cibo e dell’acqua. È un caso estremamente simbolico perché costituì la premessa di quello che è successo in tempi più recenti in Afghanistan e in Iraq, sempre ad opera dell’esercito britannico e di quello statunitense».

La Corte europea per i diritti umani si è già pronunciata sul caso degli “incappucciati” negli anni ’70 ma lo ha fatto in modo contraddittorio: prima condannando il governo britannico per il reato di tortura, in seguito sostenendo che si era trattato “soltanto” di trattamenti inumani e degradanti, creando un precedente giuridico dalle conseguenze assai negative. Negli ultimi due anni sono emersi però nuovi documenti ufficiali riservati che hanno dimostrato come quella tortura sia stata autorizzata a livello politico e sia rimasta parte integrante della dottrina militare britannica fino ai giorni nostri. «Le prove del coinvolgimento del governo britannico dell’epoca hanno portato alla riapertura del caso e stavolta il pronunciamento della Corte potrebbe rivelarsi uno dei più significativi della storia recente del diritto internazionale».

All’epoca Murray fu il primo a raccogliere le sconcertanti testimonianze delle vittime e a farle conoscere al mondo intero. Uno di loro, Sean McKenna, finì in un ospedale psichiatrico e alcuni anni dopo fu stroncato da un attacco cardiaco. Di lì a poco morì anche Patrick Shivers, sempre a causa dei postumi delle torture subite. Tutti gli altri hanno continuato per anni a soffrire di gravi stati d’ansia e attacchi di panico. Nonostante l’inevitabile peso degli anni, i sopravvissuti sono decisi a far valere le loro ragioni anche in memoria di chi non c’è più. «L’uso delle tecniche di privazione sensoriale era già stato sperimentato dall’esercito britannico durante le operazioni controinsurrezionali svolte negli anni ’60 in Palestina, in Malesia, in Kenya, a Cipro, e all’inizio degli anni ’70 in Oman. La loro vicenda è particolarmente importante perché per la prima volta torture del genere venivano usate in Europa, e le vittime furono dei cittadini britannici». Qualcosa di assai simile è avvenuto in tempi recenti in Iraq quando Baha Mousa, un portiere d’albergo della città di Bassora, è morto in seguito ai maltrattamenti ai quali era stato sottoposto dai soldati britannici. L’autopsia sul suo corpo ha stabilito che il decesso era stato causato dalle stesse tecniche di privazione sensoriale utilizzate in Irlanda.


A partire dagli anni ’70, monsignor Raymond Murray ha avuto un ruolo centrale nel denunciare le discriminazioni nei confronti dei cattolici irlandesi, il sistema giudiziario corrotto e le colpe di Londra nelle gravissime violazioni dei diritti umani che ebbero per teatro le strade e le carceri del nord Irlanda. È stato il cappellano del carcere femminile di Armagh dal 1967 alla sua chiusura definitiva, nel 1986. Per lunghi anni è stato vicino alle donne internate durante il conflitto e ha denunciato le condizioni disumane nelle quali erano costrette a vivere. «Alcune prigioniere repubblicane iniziarono uno sciopero della fame prima che lo facesse Bobby Sands, ma fortunatamente la loro protesta non fu portata alle estreme conseguenze».

Murray fu anche tra i primi a credere nell’innocenza dei “Quattro di Guildford” e a battersi per la loro scarcerazione mentre l’intera opinione pubblica continuava a ritenerli colpevoli. Insieme a padre Denis Faul – un altro sacerdote cattolico morto nel 2006 – ha poi compilato decine di libri e pamphlet per attestare le gravi violazioni dei diritti umani compiute dalle forze di sicurezza britanniche. Durante questa intervista ce ne mostra alcune, tra cui il monumentale The Sas in Ireland, un libro-inchiesta che nel 1990 fece scalpore, documentando gli omicidi compiuti in Irlanda dalle “teste di cuoio” dell’esercito britannico. «Per anni l’uccisione premeditata e sommaria di presunti oppositori, spesso civili innocenti e disarmati, fu purtroppo una pratica molto comune. Le forze di sicurezza britanniche hanno agito proprio come gli squadroni della morte sudamericani, completamente al di fuori della legge, uccidendo invece che arrestare, godendo della totale impunità». Ed è proprio per contrastare questa impunità che anni fa, insieme ai familiari delle vittime, padre Raymond ha costituito l’associazione Relatives for Justice, con sede a Belfast.

Con voce calma e ferma ci spiega di essere molto preoccupato per una clausola inserita nell’accordo di governo formalizzato tra il partito conservatore britannico e gli unionisti nordirlandesi del Dup, che prevede una moratoria per azzerare tutti i procedimenti penali a carico dei soldati per i reati commessi durante il conflitto. «Sono troppi i casi assai controversi e ancora irrisolti che riguardano gli agenti e i soldati britannici durante gli anni dei Troubles», conclude. «L’Accordo del Venerdì Santo prevedeva di fare i conti con il passato fino in fondo. Facendo tabula rasa di tutto si aumenterebbe il senso di ingiustizia percepito dalla gente, mettendo inevitabilmente a rischio il processo di pace».

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