venerdì 18 novembre 2022
Prima grande retrospettiva in Italia per l’artista francese che divenne celebre come decoratore di stoffe e vestendo il mondo con la luce del Meridione europeo
Raoul Dufy, “La jetée. Promenade à Nice” (1926 circa), particolare

Raoul Dufy, “La jetée. Promenade à Nice” (1926 circa), particolare - Paris Musées / Musée d’Art Moderne © Adagp

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Vestire il mondo con la pittura. Raoul Dufy, normanno di Le Havre, classe 1877, prima ancora di diventare un grande grafico e designer di fantasie per stoffe e abiti, mestiere che gli portò molta fortuna nella Parigi fine anni Dieci lavorando per lo stilista Paul Poiret, fu un instancabile cercatore della luce e del colore che possono trasformare la natura in qualcosa di esoterico, di mistico, di edenico per così dire: le stoffe e le sete disegnate e stampate a colori da Dufy mettendo a frutto la tecnica xilografica, cambiano sia gli ambienti portando nella tappezzeria l’arabesco floreale in chiave moderna sia i corpi che indossano tessuti di evidente ascendenza orientale ma con una cifra altrettanto chiara che rimanda al Midi e alle luci del Mediterraneo antico (morì nel 1953 in Provenza, a Forcalquier).

Tra le esperienze formatrici che lo porteranno a sviluppare nella pittura una sensibilità al tempo stesso astratta e mitopoietica, è il viaggio in Italia all’inizio degli anni Venti, che culmina fatalmente nella peregrinazione lungo alcune località della Sicilia: da Catania a Taormina. La luce inonda la realtà creando un mondo fuori dal tempo, e lo fa risalire alle sorgenti greche e al mondo panico dove il paesaggio ha, come disse lui stesso, qualcosa di omerico. Dufy scopre così un infinito nel quale ogni presenza si trasforma in una rapsodia di silhouettes, con una pittura à plat dove segni e linee sono debitrici di ciò che Dufy aveva sperimentato assai presto attraverso l’incisione e poi, in particolare, nella xilografia.

È la prova palmare di ciò che inizialmente aveva intuito nella pittura di Cézanne: «Il colore-luce che costruisce la forma». Un’idea che lo riallaccia ai nostri antichi metafisici, a Piero della Francesca, cui Longhi assegnò il ruolo di precursore del coloreluce moderno. Il suo occhio onnivoro, anzi persino bulimico, filtra ogni cosa e dalla percezione decanta un segno e zone colorate che creano paesaggi, ambienti, figure, volti senza mai essere imitativi o illustrativi. Eppure, proprio come illustratore di opere letterarie Dufy si fece presto un nome dopo aver scoperto la xilografia sulla rivista che il mitico Remy de Gourmont stampava al torchio in casa propria, “L’Ymagier”, con la collaborazione di Alfred Jarry, l’inventore di Ubu Roi: era un periodico di iconografie e poesia (ne uscirono otto numeri, tra il 1894 e il 1895, e il nome fu probabilmente una pensata dello stesso Jarry); su quei fogli s’incontravano infatti le xilografie del passato e altri di nuovo conio. Dufy si abbeverò a questa fonte e ad altre quando decise di dedicarsi all’incisione, illustrando Mallarmé e Il poeta assassinato di Apollinaire, e continuò dalla metà degli anni Venti con soluzioni più pittoriche illustrando anche opere di Gide, Colette e Roland Dorgelès.

Quindi incisione e moda sono gli ambiti che, come un imprinting secondo (il primo fu il mondo postimpressionista di Van Gogh, Gauguin, e, soprattutto, Cézanne), gli permettono di comprendere quale strada prendere per mettere a punto quello che diventerà l’inconfondibile “stile Dufy”. E non è dunque un caso se negli ultimi anni del primo decennio del Novecento Dufy frequentasse e condividesse la ricerca pittorica con Braque, padre del cubismo, ma poi anche maestro della pittura lirica e dell’à plat.

La sbornia di Dufy per Cézanne si protrasse fin dopo la Grande Guerra, sebbene l’esperienza fauve l’avesse già strappato all’incanto dell’impressionismo cui era soggiaciuto nei primi anni quando cercava ancora la sua strada di pittore. Matisse e Derain lo catturano e i dipinti degli anni 1905-08 esposti ora a Palazzo Cipolla non lasciano dubbi. La frequentazione di Braque e la sensibilità per tonalità più scure emerge però negli anni d’anteguerra in opere di vario genere: nature morte, interni di case, giardini, bagnanti. È il periodo forse più ecletticompia co di Raoul Dufy, che ancora deve trovare il linguaggio che nella pittura distilla il segno e si rende simile a un arabesco esotico (trasferito in primis sui tessuti) ma con un fraseggio leggero che ha nell’ispirazione qualcosa di musicale.

La mostra dedicata a Dufy “pittore della gioia”, la prima retrospettiva di un certo respiro che si tiene in Italia grazie alla collaborazione di Palazzo Cipolla col Museo d’arte moderna di Parigi che possiede un nucleo vastissimo di sue opere (121 precisa il direttore del museo, Fabrice Hergott, raccolte in gran parte attraverso donazioni, lasciti o acquistate da privati). Su tutte spicca per notorietà e impegno l’enorme composizione dedicata alla Fata elettricità, dea del mondo moderno e della Ville Lumière: 250 pannelli per circa 600 metri quadrati di superficie. L’opera fu presentata la prima volta a Parigi in occasione dell’Esposizione internazionale del 1937, di cui Roma espone oggi lo studio in scala 1/10 che raggiunge una lunghezza di sei metri. Dipinto di rilievo istituzionale, questa composizione incarna la sfida che l’artista abbracciò cercando di portare a sintesi e rendere evidente la sua poetica. Coglie nel segno la curatrice della mostra, Sophie Krebs, quando nel catalogo edito da Skira evoca ironicamente le ragioni dell’espressionismo lirico di Dufy, così che potremmo dire, in una battuta, rappresenti emblematicamente un élan électrique: « Lusso, calma e voluttà di Matisse gli fece l’effetto di una scossa elettrica », appunto. È lo stesso Dufy a spiegarlo: « Ho compreso tutte le nuove ragioni per dipingere e il realismo impressionista ha perduto per me il suo fascino alla vista del miracolo dell’immaginazione introdotta nel disegno e nel colore».

Giustamente Krebs definisce il carattere del disegno di Dufy “rapido ed elittico”. Assai bella la forma che lo incarna, la quale tende alla silhouette icastica, sia che Dufy realizzi il disegno per una figura di moda, sia quando compone il parterre della Fata elettricità in alcuni bozzetti dove le figure si sommano come in un “pantheon dell’assenza”, essendo ciascuna definite da un contorno svuotato che le rende simili ad apparizioni dell’Aldilà, maschere prossime alla caricatura: splendido il bozzetto dove le figure emergono dall’assemblaggio di foto e segni grafici. Dufy conferma ancora in questa occasione di essere uno strano ibrido di magicien cinese e di alchimista mediterraneo, non a caso le trasparenze della seta e le sue preziose decantazioni del riverbero luminoso ne svelano la cultura capace di tenere insieme Oriente e Occidente in una sintesi che trasmuta l’uno e l’altro: mistica del vuoto e costruzione dell’apparenza in una forma assolutamente moderna. E ancora Krebs a notare come Dufy il miracolo di «esprimersi con una grazia di cui nessuno dei suoi contemporanei è capace». Forse il segreto sta nelle stesse parole del pittore quando nota che pittura e decorazione «si dissetano alla stessa fonte». Matisse sarebbe d’accordo, e a Vence luce e colore cantano insieme l’inno alla Vergine madre anche dell’arte più alta e della mistica dello sguardo.

Scoperto questo “passaggio segreto” che conduce alla pittura meno naturalistica che si possa immaginare, tutto viene da sé: sia che Dufy stampi un tessuto con fantasie floreali, oppure disegni una passerella di figure femminili che indossano i suoi abiti arabescati, sia che realizzi un vaso in ceramica con bagnanti o una coppa maiolicata sulle suggestioni dell’antico mediterraneo, sia che rappresenti il teatro di Taormina (con qualche reminiscenza dechirichiana?), un paesaggio di grano o una corsa di cavalli, il proprio atelier con le modelle oppure una regata nautica, o ancora la meravigliosa serie di acquerelli con vasi di fiori. Tutto il mondo che Dufy dipinge è al tempo stesso un arabesco di colori e un mondo “altro” nel quale la gioia è quanto di più puro ed essenziale sia immaginabile su questa terra. Ma la libertà fantastica di Dufy è probabilmente la risposta che elaborò dopo aver conosciuto la notte della Grande Guerra. Il questo senso la gioia della sua pittura ha sempre un retrogusto tragico, quello di chi aspira a una bellezza che non è di questo mondo.

Roma, Palazzo Cipolla ​
Raoul Dufy. Il pittore della gioia
Fino al 26 febbraio

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