domenica 1 marzo 2020
Acuto interprete di questioni teologiche Raffaello superò predecessori e posteri con la sua arte capace di donare all’immagine la forza dell’eternità. La riflessione del cardinal Ravasi
Particolare della Madonna della seggiola di Raffaello

Particolare della Madonna della seggiola di Raffaello - Archivio

COMMENTA E CONDIVIDI

A Raffaello “maestro dei maestri” è dedicata la monografia di “Luoghi dell’Infinito”, in edicola da martedì 3 marzo con “Avvenire”: tante firme prestigiose per un numero, il 248, da collezione. I due editoriali sono della direttrice dei Musei Vaticani Barbara Jatta e lo scultore e poeta Massimo Lippi. Apre la monografia Stefano Zuffi che ricostruisce i primi passi del giovane Raffaello. Antonio Natali traccia un ritratto della Firenze conosciuta dal Sanzio: una vera e propria “nuova Atene”. Gianfranco Ravasi, di cui anticipiamo parte del testo, affronta il tema di Raffaello umanista e teologo. Il lato filosofico del Sanzio è invece esplorato da Sergio Givone. Le Madonne di Raffaello sono al centro della riflessione di Timothy Verdon, a cui segue l’architettura dell’Urbinate raccontata da Paolo Portoghesi. Maria Antonietta Crippa affronta il tema Raffaello e i “beni culturali”. Franco Cardini allarga lo sguardo al contesto storico, anni di bellezza ma anche di guerra e violenza. Irene Baldriga ricostruisce la fitta rete di rapporti del Sanzio con la pittura dell’Europa del Nord. Elena Pontiggia segue la schiera di allievi e collaboratori, a partire da Giulio Romano. Alessandro Beltrami infine racconta il mito di Raffaello dal Seicento alle soglie del Novecento.

Per anni ho avuto la fortuna di vivere nello stesso palazzo della Biblioteca Ambrosiana ove si custodisce un imponente disegno a carboncino e biacca di ben 2,75 per 7,95 metri: è il cartone preparatorio che Raffaello ha elaborato di suo pugno per abbozzare l’affresco della Scuola di Atene che avrebbe poi dipinto in Vaticano nella cosiddetta Stanza della Segnatura. Come recita il titolo, l’opera rivela un Raffaello filosofo che convocava in quel dipinto Platone e Aristotele, Socrate, Epicuro, Eraclito e Pitagora, persino Diogene e Alcibiade, ma anche Averroè e Zoroastro. Tuttavia il lessico iconografico che dominò la breve, ma intensa, vita cronologica e artistica dell’Urbinate fu quello teologico.

Lungo sarebbe l’elenco e complessa l’analisi dell’immensa sequenza di soggetti biblici e religiosi che popolano le pareti del Palazzo Apostolico. Ad esempio, la Stanza di Eliodoro è così denominata da un murale che rappresenta la scena narrata dal Secondo Libro dei Maccabei (3,23–24), ove è appunto protagonista questo ministro siro. Ma nella stessa sala ecco la liberazione di san Pietro dal carcere, episodio narrato dagli Atti degli Apostoli (12,1–19), con uno straordinario gioco di luce e tenebra (indimenticabile è la luna che si affaccia in un cielo estivo velato di nubi lievi). Tra le altre scene, facciamo emergere il tema eucaristico, raffigurato nella cosiddetta Messa di Bolsena col celebrante boemo in crisi di fede che, nel 1236, alla consacrazione vede l’ostia sanguinare, miracolo che generò la festa del Corpus Domini. A lato di quell’evento Raffaello pone simbolicamente il “suo” papa, Giulio II che, inginocchiato, alza le mani giunte in preghiera, fissando in concentrazione il miracolo che sta compiendosi sull’altare, mentre le bionde guardie svizzere assistono anch’esse genuflesse nel loro sontuoso abbigliamento di velluto e raso con armature. [...]

Un apogeo della sua arte è la Trasfigurazione, tavola pensata come dono da inviare alla cattedrale francese di Narbonne, sede episcopale titolare di un nipote del pontefice di allora Leone X, il cardinale Giulio de’ Medici che sarebbe divenuto, un paio di anni dopo la morte dello zio, nel 1529, lui stesso papa col nome di Clemente VII. L’Urbinate compose su due registri la scena, seguendo il testo evangelico nella sua struttura a dittico. I tre evangelisti sinottici – Matteo (17,1–20), Marco (9,2–29) e Luca (9,28–43) – narrano, infatti, sia pure da angolature redazionali differenti, sia la “cristofania” della Trasfigurazione su un monte innominato, identificato nel Tabor da un’antica tradizione secolare, sia la guarigione di un ragazzo epilettico ai piedi di quel monte. Nella sua pala Raffaello alla luminosa “metamorfosi” (tale è la parola originaria greca per indicare la Trasfigurazione) di Cristo congiunge una vicenda così drammatica come quella del ragazzo epilettico, la cui sindrome era accuratamente delineata dagli evangelisti: «Uno spirito muto, dovunque lo afferrava, lo gettava a terra ed egli schiumava, digrignava i denti e si irrigidiva […].

Alla vista di Gesù, subito lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo che, piombato a terra, si rotolava schiumando ». Anzi, suo padre confessava a Gesù che quello spirito maligno – secondo l’antica concezione alcune malattie erano considerate come effetto di possessione diabolica – «spesso lo buttava nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo» (Marco 9,18–22). Due piattaforme sceniche sovrapposte animano, dunque, il dipinto di Raffaello. Esse, però, sono impostate prospetticamente a diversa gradazione. La Trasfigurazione è lassù, avvolta in un nimbo di luce trascendente, ove Cristo aleggia sospeso con le braccia aperte a croce, accompagnato ai bordi della mandorla luminosa da Mosè, simbolo della Legge, e da Elia, emblema della profezia, protesi in contemplazione, mentre ai piedi di Gesù, sul terreno della cima del monte, accecati e storditi sono accasciati a terra i tre apostoli testimoni Pietro, Giacomo e Giovanni.

Questa scena alta e sublime dovrebbe essere ammirata a distanza, come se fosse un’epifania che da lontano, dall’alto, quasi dall’infinito, si apre allo sguardo della contemplazione mistica. Una visione ravvicinata è, invece, richiesta dalla scena inferiore, mossa, tormentata, agitata da movimenti fortemente “carnali”: basti solo guardare il corpo in torsione e gli occhi sbarrati e stravolti del ragazzo epilettico. Eppure alcune mani si levano verso l’alto ove risplende circonfuso di luce il Cristo. Anzi, il giovane, con le sue braccia, il destro teso verso il Cristo trasfigurato e il sinistro rivolto a terra, crea una sorta di croce a cui la malattia lo inchioda. Raffaello, in tal modo, va oltre la lettera del racconto evangelico che suppone una sequenza temporale staccata tra i due eventi, e vede tra di essi un rapporto causale di natura squisitamente teologica. È, infatti, dal Cristo glorioso, centro della storia della salvezza, che fluisce la liberazione dal male. Per questo egli unisce trascendenza e immanenza, eternità e storia, luce e oscurità, grazia e sofferenza, assoluto e caducità, divinità e umanità. […]

Questo dipinto fu in pratica l’ultimo a cui si dedicò il pennello di Raffaello tra il 1518 e il 1520, l’anno della sua morte. Egli era appena trentasettenne e il suo funerale è commemorato con una nota commossa da Giorgio Vasari nelle sue Vite. Le sue parole possono essere il suggello più efficace alla contemplazione di questo capolavoro. Scriveva, infatti, trent’anni dopo, nel 1550, quel pittore che fu uno dei primi storici e critici d’arte: «Gli misero alla morte al capo, nella sala dove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de’ Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’animo di dolore a ognuno che quivi guardava».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: