martedì 3 settembre 2013
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La rivista Pagine Ebraiche pubblica nel numero di settembre un lungo articolo in cui Piero Piperno, 84 anni, ricorda come fu nascosto e salvato con la sua famiglia nel convento romano delle suore di Santa Brigida a piazza Farnese. Ne riportiamo un’ampia sintesi in questa pagina. «Ci hanno salvato, ma soprattutto ci hanno restituito la dignità permettendoci di vivere a pieno la nostra identità ebraica», annota commosso Piero Piperno nel ricordare il ruolo che madre Maria Elisabetta Hesselblad (riformatrice delle suore del SS. Salvatore di Santa Brigida, beatificata il 9 aprile del 2000) e madre Riccarda Beauchamp Hambrough ebbero nel proteggerli. In quel convento i Piperno vissero in clandestinità fino all’arrivo delle truppe alleate a Roma. Un contributo che torna d’attualità in queste settimane con la stampa di alcuni certificati di coraggio realizzati dal Centro Simon Wiesenthal di Los Angeles e con la loro consegna all’attuale superiora delle Brigidine in segno di eterna riconoscenza da parte dei salvati. Già nel 2005 il nome di madre Hesselblad era stato iscritto nel registro dei Giusti tra le Nazioni e quest’estate a Los Angeles è stata organizzata una serata con ospiti d’onore il figlio e uno dei nipoti di Piero: Lamberto e Ariel Piperno. «Al di là delle appartenenze sociali e religiose, si coglie in questo onorevole riconoscimento la consapevolezza della centralità della persona, l’alto e ineludibile valore di ogni essere umano e della sua vita quale diritto e dovere da difendere, promuovere e sviluppare», ha detto la superiora generale della suore di Santa Brigida Madre Tekla Famiglietti nel ricevere la medaglia dello Yad Vashem. Con me a Los Angeles, ha spiegato Lamberto Piperno, «ho voluto Ariel perché si rendesse conto della grandezza d’animo di queste due donne straordinarie e di come la loro memoria vada trasmessa». A consegnare il riconoscimento padre Norbert Hofmann, segretario della Commissione vaticana per i rapporti religiosi con l’ebraismo. LA STORIALa famiglia Piperno è sempre stata molto unita: due fratelli, Giacomo e Adolfo, avevano sposato due sorelle, Nella e Vanda Sed, e una terza sorella, Vera, aveva sposato Silvio, Piperno anche lui, ma di un altro ramo. Tutti quanti con i loro figli e con l’anziana nonna Clotilde (madre di Giacomo e Adolfo) si troveranno nel convento di Santa Brigida nell’inverno del 1943. Anche l’attività economica era in comune: erano infatti commercianti di tessuti all’ingrosso. Adolfo morì molto giovane nel 1936 così Giacomo si prese sulle spalle anche la famiglia del fratello, come si usa nelle famiglie ebraiche. Prima della promulgazione delle leggi razziali del 1938 i Piperno erano italiani e nazionalisti. Il padre della nonna Clotilde era stato decorato per aver partecipato alla terza guerra di indipendenza del 1866 e successivamente Giacomo Piperno era andato ufficiale volontario nella prima guerra mondiale. L’adesione al fascismo fu quindi spontanea come in molte altre famiglie di religione ebraica. Le leggi razziste del 1938 sono stati un brusco risveglio. La famiglia Piperno poté comunque continuare l’attività commerciale grazie all’aiuto di una ditta cliente che offrì il suo nome come copertura. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania, il 10 giugno 1940, si temevano i bombardamenti delle città italiane da parte degli Alleati. Fu così che la famiglia cominciò a pensare di acquistare una casa in campagna per trasferirvi anziani, donne e bambini e, in caso di necessità, anche gli uomini. (...) Un fratello della anziana nonna Clotilde aveva una casa nei pressi di Siena. Fu così che le ricerche si spostarono in quella zona. Prima fu acquistata una casa e riadattata in seguito si arrivò all’acquisto di una più ampia tenuta, Monaciano. L’acquisto fu possibile perché l’azienda era già una società anonima quindi, ufficialmente, non risultava come proprietà ebraica. Nessuna scelta fu più fortunata perché Monaciano fu il luogo della prima salvezza. Tra gli altri vi era l’agente agrario della fattoria Ettore Bonechi, in seguito sarà riconosciuto Giusto tra le Nazioni dallo Yad Vashem. Iniziò a fare arrivare del cibo a Roma e noi ragazzini lo vedevamo come una specie angelo. Ma fu solo più tardi quando, dopo l’8 settembre ’43, l’esercito tedesco invase l’Italia centrosettentrionale e le SS iniziarono le razzie e la deportazione degli ebrei, che si poté conoscere la vera natura di Ettore e il suo naturale e innato senso di giustizia. Da Roma giunse la terribile notizia della deportazione degli ebrei. Restare nella grande villa di Monaciano sembrò imprudente. Così le famiglie si divisero fra alcune case coloniche più appartate. Ma non era finita. Il 4 novembre Bonechi ci recò di notte la notizia che il giorno dopo i nazifascisti avrebbero arrestato tutti gli ebrei di Siena. Bisognava trovare un nascondiglio più sicuro. Ettore trovò una casa semiabbandonata in una tenuta non lontana, col benestare del fattore suo amico, il signor Sollecito Parri, e del proprietario Terrosi Vagnoli. Le varie famiglie si divisero: alcune decisero di far rientro a Roma, pensando che nascondersi in una grande città sarebbe stato più facile e che, spostandosi verso Sud, ci si sarebbe avvicinati alla linea del fronte e all’avanzata degli Alleati. Ma la famiglia di Ugo, un altro fratello di Giacomo, prese invece un’altra strada: la moglie era di Torino e da quella città fu inviato, dai suoi genitori, un incaricato a prelevare la famiglia, per portarla nel Nord e di là farle attraversare il confine svizzero. Bonechi li accompagnò a Montevarchi dove consegnò loro la sua carta di identità e quella della cognata. Altre persone hanno aiutato la famiglia in quei momenti: il professor Mario Bracci, che viveva nella Certosa di Pontignano adiacente a Monaciano e che ci ha seguito, consigliato, avvisato di quanto succedeva a Siena; il commissario di polizia, Giuseppe Gitti, che con la sua testimonianza ha fatto pervenire i documenti falsi presso l’ufficio postale di Siena (questi primi documenti furono distrutti all’arrivo a Roma, successivamente ne furono fatti altri) e ha accompagnato parte della famiglia nella Capitale con due auto della Questura. Ma anche tutta la popolazione di Monaciano e di Siena che con solidarietà attiva e passiva ci ha protetto. (...) A Roma. Una donna, portiera in uno stabile, mise a disposizione l’appartamento di una famiglia trasferitasi al Nord. In quell’immobile Vanda era conosciuta. La sistemazione poteva risultare molto pericolosa. Fu così che un’amica ci presentò come sfollati a madre Paola, che allora dirigeva la foresteria del convento delle suore del SS Salvatore di Santa Brigida. (...) In totale eravamo 13 persone. Ai primi di gennaio la beata Maria Elisabetta Hesselblad chiamò Vanda e con tono tranquillo, ma deciso, la invitò a confessare per quale motivo una famiglia che non parlava un dialetto meridionale, ma con documenti del Sud, si era rifugiata nella foresteria del convento. Commossa da questo incontro, Vanda dichiarò che non era possibile dire una cosa non vera a una persona di tale carisma. Fece bene poiché, dopo essere stati accolti come sfollati, fummo subito trattati come fratelli; la beata Maria Elisabetta riunì tutti gli uomini, che si pensava fossero più esposti, in un’unica stanza al primo piano, da cui si arrivava prima in chiesa se fossero venuti i nazifascisti e in cui aveva predisposto un nascondiglio; si seppe solo dopo che fece tutto questo aiutata solo da madre Riccarda Beauchamp Hambrough per non coinvolgere le altre consorelle in modo da non renderle responsabili. Ma oltre all’affettuoso aiuto diede qualche cosa che vale quanto la vita. A Vanda che l’interrogava circa il nostro comportamento verso la religione cattolica, di cui noi seguivamo le preghiere per non essere scoperti, disse di seguire le leggi della nostra religione. Fu così restituita la dignità a uomini cui era stata tolta nel 1938 dallo stillicidio di leggi e disposizioni che vietavano ogni giorno qualche cosa di più fino all’ingresso nei campi di sterminio. La notte del 4 giugno 1944 giunsero a piazza Farnese numerose camionette piene di soldati. Pensammo che fossero tedeschi. Invece parlavano francese: erano i soldati di Charles de Gaulle venuti a prendere possesso dell’ambasciata francese accanto al convento. Capimmo di essere finalmente salvi. (...) La nostra famiglia ha avuto la fortuna di trovare molte persone che hanno aiutato, ma nessuno come la beata Elisabetta e madre Riccarda che ci hanno salvato la vita e restituito la dignità.<+copyright>
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