martedì 10 novembre 2020
«Oggi noi non possiamo più testimoniare» afferma il giornalista, sommersi come siamo dai giudizi sommari di «energumeni sovranisti e xenofobi».
La guerra sta distruggendo anche il Nagorno-Karabakh, nell'indifferenza generale

La guerra sta distruggendo anche il Nagorno-Karabakh, nell'indifferenza generale - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

La realtà esiste, basta raccontarla. È ancora una volta un elogio al giornalismo fatto di persona (e non per interposta persona) l’ultimo libro di Domenico Quirico, Testimoni del nulla (Laterza, pagine 146, euro 16,00). O il giornalismo è cronaca diretta del reale o non è giornalismo, sembra dirci l’inviato della “Stampa”, che venerdì 13 novembre (ore 17.00 diretta sul sito di Laterza) presenterà il libro in dialogo con il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, nell’ambito di Bookcity.

Non è giornalismo ciò che si accontenta di verità preconfezionate, magari da parte dei governi di turno, non è giornalismo il buonismo compassionevole dei salotti televisivi e della carta stampata, non è giornalismo il bar dello sport dei social che agita il fantasma delle fake news per orientare questa o quella campagna d’opinione.

Il disincanto dell’autore è noto e anche questa volta è ribadito a chiare lettere. "Lei è così pessimista", gli dicono durante un viaggio in Sierra Leone. Lui ce l’ha soprattutto con i depositari del politicamente corretto, con le vestali dell’informazione per partito preso.

E così, di reportage in reportage, dallo scandalo della fame in Etiopia fino ad Aleppo, passando per il dramma annunciato della Somalia e per il genocidio ruandese, Quirico non rinuncia a essere corrosivo, duro, a volte senza speranza.

«Un tempo – scrive – ho creduto, abbiamo creduto, noi viaggiatori della Storia letta al presente, alla pietà». Erano i tempi in cui ci si commuoveva per il Live Aid. Lo sguardo del giornalista è persino perfido nell’ironizzare su cotanta bontà mondiale riservata per i poveri.

«No. Oggi noi non possiamo più testimoniare» afferma, sommersi come siamo dai giudizi sommari di «energumeni sovranisti e xenofobi».

Quirico non spiega direttamente perché «non possiamo più testimoniare», lo lascia intendere: è sempre più difficile raccontare dando voce agli ultimi, agli oppressi, ai perseguitati. È difficile perché prima si andava di persona nei luoghi in cui l’uomo era messo in croce, ora è più facile agire e parlare per sentito dire.

Ecco il paradosso: nel momento in cui tutto è informazione, nulla è informazione. Servono dunque testimoni credibili. Illuminante è il racconto di Ebola, anno 2014. In Africa si anticipa (con tassi di mortalità ben più drammatici) quanto sarebbe successo in Occidente, sei anni dopo, con l’attuale pandemia da coronavirus. L’errore commesso da Quirico con un autista, «gli allungo la mano, lui si ritrae stupefatto. Qui non si usa più: il contagio, le secrezioni, le bave e i sudori corrompono».

L’umanità era prigioniera di un virus, costretta a vivere in regime di separazione e distanziamento, ben prima che il ricco Occidente se ne accorgesse. Ai colleghi di Quirico, ai tempi, la Sierra Leone teatro dell’epidemia, interessava solo «per la paura, per una medioevale prescientifica morbosa ossessione del contagio». Dicono qualcosa all’uomo d’oggi, queste parole? È la cattiva coscienza del nostro mondo che Quirico vorrebbe d’un colpo lavare, ricordando le tante guerre che non sono dimenticate, ma che semplicemente «non vogliamo raccontare», attraversando di corsa come ama fare anche tante vicende personali drammatiche, come i due sequestri subiti in Libia e in Siria.

«La paura è una faccenda tra noi e noi – conclude –. Gli altri, quelli del Terzo mondo, non compaiono nella fotografia. Forse guardarli ci avrebbe aiutato ad avere più coraggio».

Per conoscere il programma 2020 di Bookcity CLICCA QUI




© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: