mercoledì 25 gennaio 2023
Due testi francesi e un saggio del teologo valdese Paolo Ricca riaprono il dibattito sul rapporto fra il cristianesimo e la modernità
Il mosaico absidale di San Vitale a Ravenna, VI secolo

Il mosaico absidale di San Vitale a Ravenna, VI secolo - Petar Milošević / WikiCommons

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Davvero torna di moda l’apologetica? Considerata anche dai teologi una metodologia desueta dalla modernità in poi, con la messa in discussione radicale della fede da parte dei pensatori fra ‘800 e ‘900, poi abbandonata del tutto dopo gli inferni dei lager e dei gulag del secolo passato, ora se ne torna a parlare con la pubblicazione Oltralpe del libro Dieu, la science, les proves di Olivier Bonnassies e Michel- Yves Bolloré (edito da Tredaniel, con prefazione del premio Nobel per la fisica Robert Wilson), in cui si sostiene che le recenti acquisizioni degli scienziati portano a una nuova alleanza tra la scienza e la fede. I due autori hanno incontrato una ventina di grandi fisici, astrofisici e biologi; ne è nato un bestseller che ha fatto discutere nei mesi scorsi l’intellighenzia francese. Le scoperte della relatività, la meccanica quantistica, l’espansione dell’Universo, il Big Bang, la complessità della vita: proprio grazie alla scienza, contrariamente a tutte le previsioni, all’inizio del XXI secolo sembra affermarsi come vincente l’idea di un Dio creatore. Ma la scienza può fornire le prove dell’esistenza di Dio? Piuttosto scettico il gesuita e fisico a sua volta François Euvé, caporedattore della rivista Etudes, il quale ha scritto in risposta un saggio dal titolo La science, l’épreuve de Dieu? (editions Salvator), ove torna a perorare la distinzione fra i due campi, quello della fede e quello della scienza. Come scrisse Galileo, la fede c’insegna «come si vadia al cielo, non come vadia il cielo». Già in passato si è fatta troppa confusione e la Chiesa cattolica in particolare ha preteso di invadere il campo degli scienziati per evitare che fossero poste in discussione le proprie verità. D’altra parte, è accaduto anche il contrario e il mondo della scienza ha preteso di poter pervenire a una “teoria del tutto”. Spiega Euvé in un’intervista al sito francese di Aleteia.org: « È abbastanza normale pensare che la scienza metta Dio alla prova. La scienza, infatti, pretende di spiegare i fenomeni naturali senza ricorrere a cause extranaturali. Certo, c’è sempre qualcosa che rimane inspiegabile. Nel panorama sempre più serrato delle spiegazioni del mondo permangono dei vuoti, degli interrogativi aperti, in particolare il passaggio dalla materia inerte alla materia vivente. Ma nulla dice in anticipo che rimarranno tali. Questo ci riporta alla difficile questione dell’azione divina nel mondo, almeno nel mondo fisico». Nel libro, che contiene anche un bel dialogo conclusivo fra l’autore e il fisico e filosofo della scienza Etienne Klein, il gesuita ricorda la frase di Giovanni Paolo II del 1988: «La scienza può purificare la religione dall’errore e dalla superstizione; la religione può purificare la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti». Per Euvé «provare l’esistenza dell’atomo è una cosa, ma non si può usare la stessa procedura per il Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. Questo è un rapporto che riguarda la libertà ». Che le scoperte del XX e XXI secolo abbiano riportato in auge certe questioni filosofiche e teologiche che il positivismo dell’800 aveva relegato in un passato metafisico è vero, ma ciò non significa confondere i piani. Come nel caso della “particella di Dio” di cui si è parlato a proposito del bosone di Higgs. Nel volume Euvé ribadisce: « La scienza e la fede si situano su due registri differenti. Conoscere un oggetto fisico e conoscere Dio non appartengono allo stesso ordine. Questa distinzione evita la confusione dei generi che conduce ad appropriazioni indebite, come quando si sostiene che la scienza proverebbe la verità della religione. o a metterle in radicale opposizione, come quando si afferma che la scienza dimostra che Dio non esiste». Ha senso allora parlare ancora di apologetica? Parola che si ritrova nella prima epistola di san Pietro, dove si legge che il cristiano deve essere sempre pronto a «dare conto della speranza che è in lui». Da questa esigenza nasce l’apologetica, con una missione ben precisa: “spiegare” o “difendere” la fede cristiana, giustificarla davanti a chi non la comprende o la confuta; è questo il segno distintivo di una disciplina teologica antica quanto la Chiesa e che si è rinnovata di fronte alle sfide di ogni epoca. Ma certo un compito non desumibile dalla scienza e tantomeno dagli scienziati, anche se credenti. Semmai dai teologi. Se è vero infatti che non è più il tem-po di difendere la fede davanti alle autorità imperiali romane come nei primi tempi del cristianesimo, il «rendere conto» richiamato da san Pietro è ancora una scommessa. Accettata da Paolo Ricca, teologo valdese e storico del cristianesimo, che si cimenta in questa nuova sfida nel volume appena uscito Dio. Apologia (Claudiana, pagine 412, euro 24,50). Ponendosi sulla scia del proprio maestro Giovanni Miegge, che nel 1952 diede alle stampe il libro Per una fede con chiare intenzioni apologetiche, Ricca spiega di voler offrire un’esposizione ragionata dei principali articoli della fede cristiana e insieme discutere le obiezioni che nella cultura europea si sono sollevate e ancora emergono contro l’ipotesi dell’esistenza di Dio. Un’apologia dunque, come lo furono quelle di Socrate o di Giustino, ma senza nessuna volontà di annacquare il messaggio cristiano né tantomeno di volerlo conciliare con la modernità senza considerare tutte le asperità di un dialogo-scontro come quello che si è verificato negli ultimi secoli. Apologia che si fa testimonianza e che trova il proprio riferimento nella figura di Giobbe, il quale al contrario dei suoi amici che l’accusano in nome della giustificazione dell’opera di Dio, ribalta il discorso e chiama in causa Dio stesso. Dio infatti, spiega Ricca, non ha bisogno di avvocati difensori: « Nella Bibbia non ci sono apologie di Dio né da parte dei profeti, né da parte di Gesù o degli apostoli. E non è certamente un caso e privo di significato il fatto che durante il processo a Gesù nessuno lo abbia difeso, nessuno ne abbia pronunciato l’apologia, e che tanto meno Gesù abbia fatto l’apologia di se stesso». Il saggio riesamina le varie critiche alla fede da parte di pensatori come Feuerbach e Marx, Comte e Freud, Nietzsche e Sartre, prendendole sul serio e attualizzandole, e non si esime certo dall’affrontare le questioni della debolezza e del silenzio di Dio, come nel caso di Jonas. Con un accento sempre autocritico. Molto infatti dell’allontanamento dalla fede da parte dei contemporanei è dovuto alle «lacune più o meno vistose, ma comunque consistenti, nella predicazione e nella pastorale » delle Chiese, nonché alla «qualità della vita comunitaria» e «allo stile di vita». Inoltre, il discorso pubblico delle Chiese oggi è molto incentrato su questioni sociali, che siano i diritti o l’accoglienza dei migranti o la difesa dell’ambiente, a scapito del discorso su Dio: «Solo imbarazzo – si chiede Ricca -, insicurezza psicologica, eccesso di pudore, o non piuttosto una sostanziale carenza di fede?». Domande che sono emerse in tutta evidenza durante gli anni della pandemia, con l’afonia della Chiesa italiana e dei suoi leader, incapaci di accompagnare chi veniva colpito pesantemente dal Covid e di pronunciare parole in grado di lenire la sofferenza dando un senso alla morte. E di non tergiversare sulla risurrezione, come ha richiamato di recente un articolo di Antonio Polito su Sette dopo il funerale di un ragazzo a Roma.

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