mercoledì 16 ottobre 2019
Il fotografo romano ha percorso un viaggio inedito e crudo in dieci penitenziari italiani. Edoardo Albinati: «Si resta senza fiato di fronte a queste immagini. In prigioni così le persone marciscono»
Poggioreale, Napoli, 2015 / © Valerio Bispuri

Poggioreale, Napoli, 2015 / © Valerio Bispuri

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Si intitola Prigionieri (Contrasto, pagine 176, euro 39,00) il nuovo reportage di Valerio Bispuri, il primo fotografo ad aver ottenuto, da parte del dipartimento Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, l’autorizzazione a visitare alcuni dei più importanti penitenziari italiani, costruendo un progetto di documentazione di queste strutture e di chi le abita: sovraffollamento, precarietà dei fabbricati, mancanza di personale, difficoltà a mettere in piedi programmi di rieducazione del detenuto. Il libro è accompagnato da un fascicolo con i testi di Edoardo Albinati (che pubblichiamo in pagina), da oltre vent’anni insegnante nel penitenziario di Rebibbia, e del filosofo Stefano Anastasia, fondatore e presidente onorario dell’associazione Antigone e Garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria. Prigionieri sarà presentato il 15 novembre alle 18,30 al Museo MAXXI di Roma. Il libro si apre con una frase di Virginia Woolf: «Ho pensato a quanto spiacevole sia essere chiusi fuori, e ho pensato a quanto sia peggio essere chiusi dentro». (G.Mat.)


Nelle fotografie di Valerio Bispuri lo sguardo sulla galera diventa spesso lo sguardo della galera, assume cioè il modo di vedere le cose e le persone di chi tra quelle mura è recluso, oppure ci lavora come agente di custodia: distanze ridotte a forza, scorci violenti, gruppetti di persone e singoli volti o corpi improvvisamente ravvicinati, panorami che si interrompono contro una parete scrostata o una muraglia, il riquadro dello spioncino, il vetro del divisorio. Molte immagini infatti ci raggiungono riflesse da un vetro o attraverso di esso. Il vetro in carcere: elemento di unione per la sua trasparenza e al tempo stesso di separazione, ma soprattutto di duplicazione, per cui riusciamo a vedere non solo chi è guardato ma anche chi sta guardando, gli agenti preposti alla sorveglianza di detenuti e detenute. È un tema ricorrente, quasi ossessivo, in queste fotografie: la presenza del controllore e dei controllati nel medesimo quadro, realizzato con la virtuosistica tecnica dello split-screen o in modo più tradizionale, per esempio nella classica routine del “nuovo giunto”, appena tradotto in carcere, che viene accompagnato in matricola ancora con le manette ai polsi. Ma si tratta comunque di visioni parziali. Anche se nel progetto iniziale la galera doveva essere integralmente “visibile” da un occhio onnisciente capace di frugare e sorvegliare con un unico sguardo (il cosiddetto Panopticon, modello, ad esempio, del famoso ergastolo sull’isola di Santo Stefano), tutto in realtà vi è parziale, frammentato, oscurato, o sezionato in dettagli.

Bispuri accentua il lato drammatico o talvolta anche comico di questa riduzione di un essere umano a una parte del suo corpo, le mani come tagliate via dal resto, le braccia protese, l’addome, la schiena o il petto coperti di scritte e simboli, la tranche di un viso femminile che uno specchietto murato riesce appena a inquadrare, o l’umoristico scambio tra realtà e finzione di quella pistola tatuata sulla pancia di uno che viene impugnata dalla mano di un altro, pronta a tirare il grilletto. A questi corpi che stanno scadendo nel degrado della detenzione, che sono sempre sul punto di lasciarsi andare (e alcuni lo hanno già fatto, e sono ormai allo sfascio…) viene riservata almeno un po’ di beffarda pietà, la minima manutenzione che si riserverebbe alla carrozzeria sgangherata di una vecchia automobile, sicché un istante prima di precipitare vengono riacciuffati da una cura di sé che fa tornare improvvisamente umani anche se, quella cura, come ad esempio truccarsi gli occhi o pettinarsi o irrobustire i muscoli sollevando manubri i cui pesi sono costituiti da maxiconfezioni di bottiglie, andrà sostanzialmente sprecata visto che di quell’aspetto non godrà in fondo nessuno, e la forma fisica fatta di muscoli o di rimmel potrà essere tutt’al più ammirata da qualche altro galeotto o da una guardia. Bispuri registra senza commenti le attività volte sostanzialmente alla conservazione del proprio profilo umano, includendovi anche il lavoro (raro) e la scuola (rara anche quella): si tratta di episodi sparsi nell’insieme della raccolta.

Non si può infatti che restare senza fiato di fronte all’impressione più forte comunicata da queste fotografie: in galera (come del resto non sono in pochi dall’esterno ad augurarsi…) ci si marcisce dentro. Così come sono fatte queste prigioni, ci si marcisce e basta. Altro che! Le persone marciscono, i loro corpi si sfasciano, la loro mente pure, l’umanità non si riscatta o riabilita, semmai ulteriormente si degrada. Anche per questo e non solo per un fattore tecnico e ottico, molte delle immagini realizzate da Bispuri in interni sono così caliginose, maculate, striate, tenebrose. E spiega come molte di esse abbiano più o meno volutamente un tratto “manierista”, ricordino cioè pitture sacre a cavallo tra Cinque e Seicento, sia che compongano corpi nello spazio, sia che concentrino il fuoco su un singolo viso, come l’intenso ritratto di “santo criminale”, e più ancora nella blasfema “crocifissione” in copertina, punto d’incontro tra immagini disparate come Pontormo, il cinema di Pasolini, “Cinico tv” e il video dei Nirvana Heart-shaped Box. Se poi da tante visioni crudeli e ispirate e quasi fantastiche vogliamo tornare di corsa sulla terra, e sul serio sapere come e dove vivono i prigionieri, dove abitano (poiché anche una cella la si abita a tutti gli effetti e diventa la tua casa, nonché la tua residenza anagrafica), ebbene, ci basterà dare un’occhiata alle fotografie 2 e 49. Ecco, la vita dei prigionieri è questa. Corpi e funzioni corporali, mescolati e compressi in pochi metri quadri.

Solo poche volte nella collezione di Bispuri lo sguardo si solleva e ci regala una visuale aerea, che nessuno oltre al fotografo in verità potrebbe cogliere, né detenuto né visitatore, e sono i bellissimi e spassionati “totali” dove l’edilizia carceraria espone la sua razionalità impeccabile fatta di blocchi e raggi, e si può finalmente osservare come questi complessi facciano parte di un tessuto urbano, siano incorporati nella città, siano, anzi, delle vere e proprie cittadelle murate all’interno di un’altra città, così come lo sono un cimitero, un tribunale o un grande ospedale urbano. Incorporate e allo stesso nascoste, segretate. Chi entra in carcere per rappresentarlo sta svolgendo una funzione innaturale e impropria quanto, forse, necessaria. Al termine di questa lunga carrellata di immagini spesso impressionanti, infatti, ne restano nella memoria due in apparenza minori, meno drammatiche, anzi per nulla, o forse sono drammatiche anch’esse proprio perché ogni dramma viene lasciato fuori dalla loro cornice. È implicito, incombe, ma non si vede. Nella prima, due guardie in una cella, di fronte alla coperta leopardata di una branda a castello: due ritratti virili, molto tipicamente italiani, due uomini al lavoro, che forse è consistito nel perquisire quella cella. Una procedura di routine, e loro paiono assorti, quasi attoniti, subito prima o subito dopo averla svolta. L’altra chiude non a caso il libro: un detenuto, massiccio e pelato, palleggia da solo nel cortile dell’ora d’aria, tutto concentrato sulla palla, come un ragazzino.

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