giovedì 5 marzo 2020
La Passione, in relazione con i patimenti umani, è sempre stata motivo di studio nella storia del pensiero... il dolore subito e il dolore inflitto. La riflessione di Natoli nel suo ultimo libro
Compianto sul Cristo morto di Nicolò Dell'Arca, particolare, (Bologna)

Compianto sul Cristo morto di Nicolò Dell'Arca, particolare, (Bologna)

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È nelle librerie da oggi il nuovo libro di Salvatore Natoli L’uomo dei dolori (Edb, pagine 80, euro 9,00). Al centro della riflessione c’è il dolore che viene rappresentato nella Via Crucis, fortemente implicato con l’iniquità poiché è il giusto che muore a causa del male inflittogli da altri uomini. La Via dolorosa è dunque un’allegoria della nostra condizione e la potenza del messaggio cristiano non si limita a premiare il giusto, ma a perdonare e trasformare il cattivo. Gesù non ha tolto il dolore dal mondo uccidendo il colpevole, ma ha mostrato agli uomini l’iniquità mostrandosi come vittima innocente. Anticipiamo in queste colonne ampi stralci dell’introduzione.

Lo Schmerzensmannvir dolorum – è un’icona devozionale apparsa intorno al XII secolo nel mondo bizantino. Si è, poi, diffusa nella Germania medioevale e di lì nell’iconografia cultuale moderna fino all’età barocca. Il tema è stato, poi, sviluppato con innumerevoli varianti e l’icona è stata venerata sotto vari titoli: Engels pietà (pianto degli angeli); misericordia Domini – da intendere più come la compassione degli uomini verso Dio e le sue piaghe che come misericordia di Dio verso gli uomini; un altro titolo sotto cui è stata venerata è imago pietatis. E altri ancora. Il motivo dell’uomo dei dolori è stato ripreso in musica, come, oltre le Passioni, nel grande corale di Bach Du grosser Schmerzensmann.

Lo «schema ostensivo» era presente e peculiare già nella tradizione biblica e in particolare profetica, tanto che per san Girolamo i profeti erano chiamati veggenti ( videntes) per questo. Nella Bibbia, ricorre, infatti, spesso l’espressione «Ecco » ( Ecce), che «traduce la parola ebraica hinné. Nella traduzione dei Settanta hinné diventò idoú o idé: espressioni avverbiali di carattere colloquiale, connesso con il verbo “vedere” e usate per attrarre l’attenzione dell’ascoltatore, più o meno come look! nell’inglese odierno» (Carlo Ginzburg, Occhiacci di legno). L’icona dello Schmerzensmann doveva indurre il fedele alla contemplazione, suscitare in lui un’intensa emozione empatica. Doveva, soprattutto, essere per un verso motivo di consolazione, per altro suscitare sentimenti di contrizione. Nei secoli cristiani, la rappresentazione del corpo straziato di Cristo – e in generale la storia della sua Passione, la sua via crucis – è stata sempre motivo di meditazione e occasione di emendazione. Il sangue e le piaghe: l’icona favoriva un’immedesimazione diretta, emotiva; era motivo di consolazione per i sofferenti che vedevano nel Gesù martoriato uno come loro che li poteva davvero comprendere. Nel guardare quell’immagine il sofferente si sentiva meno solo e, a differenza che dagli altri uomini, da Gesù mai abbandonato. Perché Gesù non è un uomo come gli altri: è «uomo-Dio» o almeno è così creduto. È un unicum: infatti, il Dio dei cristiani solo soffrendo e morendo nel Figlio poteva fare esperienza di ciò che capita a tutti i «nati da donna»; appunto, il soffrire e il morire. E Gesù è nato da donna; ha patito davvero.

Nei secoli cristiani, quest’immedesimazione con l’uomo dei dolori ha infuso una singolare capacità di resistenza, ha insegnato – come diceva Manzoni dei martiri – la grand’arte del soffrire. Al dolore – direttamente o indirettamente – nessuno sfugge: è un experimentum crucis che mette alla prova il senso della nostra stessa esistenza. Siamo fatti di carne e destinati alla corruzione: le sofferenze che patiamo ci provengono, perciò, dalla nostra stessa finitezza, sono un acconto di morte. Infatti – come scrive Foucault – ci ammaliamo perché moriamo e non moriamo perché ci ammaliamo. Ne segue che innanzi a un’immagine di dolore tutti gli uomini – sia pure a diverso titolo – si sentono chiamati in causa, è qualcosa che li riguarda. Anche oggi certe immagini di dolore, certe fotografie, hanno un forte impatto emotivo e destano turbamento; anche se per breve lasso di tempo, dal momento che vengono annegate nel flusso continuo di immagini che contraddistingue la nostra epoca.

La sofferenza, dunque, è pervasiva e sotto quest’aspetto tutti i dolori si somigliano. Ma non sono equivalenti: ci sono dolori patiti che vengono dalla natura – infezioni, ma-lattie, ecc. – e dolori inflitti, quelli che gli uomini si arrecano a vicenda. Inevitabili i primi, evitabilissimi i secondi e, comunque, dipendenti dalle azioni degli uomini. I patimenti di Gesù sono dolori inflitti: un uomo è preso e messo a morte per mani d’altri uomini, vittima di un’ingiustizia e ancor più di un pregiudizio. Questo il racconto dei vangeli; la tradizione lo riprende in vari modi, e variamente lo rappresenta. Nel Pianto della Madonna, Jacopone drammatizza il dolore di una madre innanzi ai patimenti del figlio, che, però, seguono a una cattura e sono conseguenza di un oltraggio. Infatti, la notizia che il nunzio porta alla madre è questa: «Donna del Paradiso, / lo tuo figliolo è priso, Jesu cristo beato». È, sì, figlio amoroso giglio, ma è colui a cui «se sputa / e la gente lo muta / hanlo dato a Pilato».

La sofferenza di Cristo è frutto dell’arbitrio e della crudeltà degli uomini e non può essere omologata alla comune naturale sofferenza, pena una sua impropria sentimentalizzazione. Questo nella storia della cristianità è avvenuto ed è per questo che l’icona dell’uomo dei dolori ha dato consolazione a malati, storpi, indigenti, disagiati di qualsiasi natura. E ha consolato perché lo Schmerzensmann rappresenta, a suo modo, il dolore puro, che tale è e resta indipendentemente da dove viene e da chi lo ha provocato. Per secoli, al capezzale del malato s’usava dire: «Vedi, anche Gesù ha tanto sofferto»; e alla sofferenza di Gesù veniva associata abitualmente quella della madre: la Mater dolorosa. Ora non v’è dubbio che ogni sofferente – tutto preso com’è sempre nel suo dolore – poteva trovare nel Gesù piagato, in colui che sa cos’è il soffrire, un compagno. Ma questo – a parte i suoi effetti benefici e per certi versi placebo – ha finito per enfatizzare il «patetico della miseria », dando una coloritura sentimentale alle sofferenze di Gesù, che – me lo si permetta – pareva abbastanza sano e, per parte sua, avrebbe volentieri evitato i patimenti che ha subito: «Padre allontana da me questo calice». E dal momento che si parla di «patetico della miseria», le sofferenze di Cristo non sono, in senso stretto, confrontabili neppure con quelle di Giobbe.

Il paragone è improprio: Gesù, infatti, non è un uomo sottoposto da Dio alla prova del dolore per testarne la fede, non si tratta di un esperimento teologico, bensì è un uomo arrestato e messo a morte da altri per quel che predicava e praticava e che era, per taluni, motivo di disturbo. Il libro di Giobbe riguarda la «giustizia di Dio» e l’«enigma del male»; infatti – e correttamente – la tradizione trova nel «servo sofferente» di Isaia 53 la vera figura anticipatrice del Cristo. Questa sentimentalizzazione ha, peraltro, reso equivoca la formula di Paolo, ove l’apostolo dice che completa in sé le sofferenze di Cristo. Ma qui Paolo allude alle sofferenze morali – e certo anche fisiche – ma che gli provengono dall’esercizio della sua missione, da tribunali e persecuzioni. Nella pratica devozionale, il Gesù piagato è divenuto il Gesù dei sofferenti che ha spinto vieppiù sullo sfondo la circostanza che le piaghe di Gesù sono inflitte e quindi evitabili e insieme imputabili. D’altra parte, il vangelo stesso invita a limitare le lacrime chiamando, piuttosto, in giudizio; infatti, alle donne che si battevano il petto e piangevano su di lui, Gesù risponde: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me ma piangete su voi stesse e sui vostri figli» (Lc 23,28). Non procedo qui a un’esegesi dei versetti, ma mi limito a segnalare com’essi appellino alla responsabilità. Ci sono dolori di cui gli uomini sono responsabili, e solo loro; e se è vero che Gesù ha sofferto – infatti, nessuno come lui può essere compagno nella sofferenza – ciò non deve rendere generico il soffrire lasciando sullo sfondo come e quanto quei dolori potevano essere evitati. L’«uomo dei dolori» è immagine di un uomo degradato e mostra ciò di cui gli uomini sono capaci e a cui possono giungere. Ciò non ha smesso di accadere e lo Schmerzensmann, ancora oggi, ci chiama in giudizio.

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