mercoledì 10 maggio 2023
A oltre un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, resta preponderante, ribadito e invalicabile il peso dell’ubriacatura ideologica all’origine del conflitto
Un momento della cerimonia di apertura dei XXII Giochi olimpici invernali di Soči 2014, ricca di riferimenti alla visione ufficiale e celebrativa della storia russa

Un momento della cerimonia di apertura dei XXII Giochi olimpici invernali di Soči 2014, ricca di riferimenti alla visione ufficiale e celebrativa della storia russa - Ansa/Epa/H.Youn

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Un “Focus” sulla mano invisibile delle mafie nel mondo; un approfondimento sulla guerra in Ucraina (dal quale anticipiamo stralci dell’intervento di Dell’Asta) e il grande tema dei giovani colto sotto due aspetti dal cardinale Tolentino Mendonça e dallo psicanalista Benasayag sono alcuni dei temi intorno ai quali ruota il nuovo numero di “Vita e Pensiero”, il bimestrale di cultura e dibattito edito dalla Cattolica. Fra gli altri argomenti trattati, due dibattiti a più voci su “Esiste ancora l’egemonia culturale?” e sul futuro dell’informazione. Cacciari, inoltre, interviene sulla figura di María Zambrano.

Vladimir Putin e il patriarca Kirill

Vladimir Putin e il patriarca Kirill - Ansa/Epa/S Vaganov

A un anno dall’inizio della guerra, per alcuni nulla sembra fondamentalmente cambiato mentre per altri è cambiato tutto. Niente pare cambiato nella mente di Putin che, anzi, negli interventi a cavallo dell’anniversario, ha semplicemente ribadito e rafforzato le giustificazioni dell’invasione esibite l’anno scorso, semmai articolandole in maniera più radicale e totalizzante: i problemi sono rimasti la «liquidazione » della minaccia rappresentata dagli «ucronazisti » (il cosiddetto «regime neonazista» ucraino), la necessità di recuperare le terre «storicamente» russe e l’imperativo di difendersi dall’aggressione di un «Occidente collettivo» sempre più letteralmente «demonizzato »; il tutto nel quadro di quella che, a dispetto della realtà che ci mostra una guerra assurda e spietata, continua a essere definita come una «operazione militare speciale»: artificio linguistico che, sostituendo la tragedia reale con un’immagine apparentemente neutra e inoffensiva, rivela il quadro sempre più ideologico in cui si situano gli eventi che stanno sconvolgendo il mondo.

A nulla sono serviti i lavori, accademici e divulgativi, che sono stati pubblicati in questi mesi, e le testimonianze documentate che hanno accompagnato la guerra e che dovrebbero aver mostrato più che a sufficienza la pretestuosità e la disumanità di quanto sta avvenendo, così come dovrebbe essere risultata sempre più evidente la natura ideologica delle sue giustificazioni, caratterizzate dall’ormai regolare evocazione della necessaria difesa del cosiddetto “mondo russo” (il Russkij mir) dalle minacce di un “Occidente-satana” che vorrebbe distruggere questa entità – il Russkij mir, appunto – i cui membri (come recita in maniera sinistramente estensiva il sito della Fondazione omonima) «non sono solo i cittadini di etnia russa ( russkie) o di cittadinanza russa ( rossijane), non sono semplicemente i nostri connazionali nei Paesi dell’estero vicino o lontano, gli emigrati, i fuoriusciti dalla Russia e i loro discendenti. Ci sono anche i cittadini stranieri che parlano russo, lo studiano o lo insegnano e tutti coloro che si interessano sinceramente della Russia e che si preoccupano del suo futuro» ( così leggiamo nel sito del Russkij mir, fondazione creata in ottemperanza al decreto del presidente della Federazione russa, 21 giugno 2007).

Questa definizione, di per sé già inquietante nella sua chiarezza ostentatamente espansionista, merita comunque un’osservazione. Come ha fatto notare un gruppo di teologi ortodossi, il suo impianto onnicomprensivo ha consentito di formare l’idea del tutto irreale di una «sfera o civiltà russa transnazionale» ed extratemporale (oltre ai vari «emigrati» e «fuoriusciti dalla Russia» il «mondo russo» comprenderebbe anche i «loro discendenti»), la cui dimensione spaziale includerebbe Russia, Ucraina e Bielorussia (e a volte anche Moldavia e Kazakistan) e le cui caratteristiche sarebbero legate alla tradizione religiosa (si parla di assimilazione dell’eredità della Santa Rus’). Oltre a questa estensione geografica e religioso-culturale, questo “mondo russo” avrebbe un suo centro politico comune (Mosca), una lingua comune (il russo), una chiesa comune (la Chiesa ortodossa russa del Patriarcato di Mosca) e un patriarca comune (il patriarca di Mosca), che «opera in “sinfonia” con un comune presidente/ leader nazionale (Putin) per governare il mondo russo, e preservare una comune e peculiare spiritualità, moralità e cultura».

Nella definizione del Russkij mir che abbiamo appena letto, oltre alla evidente tracotanza imperialista, va sottolineata anche la raggelante indeterminatezza finale, con la quale si annettono al «mondo russo» anche tutti «i cittadini stranieri che parlano russo, lo studiano o lo insegnano e tutti coloro che si interessano sinceramente della Russia e che si preoccupano del suo futuro»: un’estensione di cui è difficile non cogliere il carattere potenzialmente totalitario e, a ogni modo, assurdamente irreale e privo di qualsiasi riferimento storico. Le menzogne ideologiche dell’anno scorso, dunque, non solo non sono venute meno ma, anzi, dopo che la concezione del Russkij mir era stata ufficialmente integrata da tempo nella strategia di politica estera della Federazione russa, e dopo le ripetute esternazioni del patriarca Kirill che ne ha fatto quasi la dottrina ufficiale della Chiesa ortodossa russa, sono state ora messe in pratica nella maniera più brutale; e nonostante tutto ciò il giudizio di molti osservatori occidentali continua a essere caratterizzato da una debolezza di fondo. Spesso, ad esempio, la necessità di superare la “logica di Cappuccetto Rosso” (con la sua divisione manichea del mondo in soggetti totalmente buoni o totalmente cattivi), necessità accompagnata magari dal sincero desiderio di poter contribuire alla pace “non umiliando” la Russia, viene confusa col rifiuto di distinguere tra aggredito e aggressore; ma l’affermazione di questo irrealistico e intollerabile relativismo, che ci toglie ogni criterio oggettivo nel cui nome superare o comporre le divisioni pure esistenti, finisce per lasciarci come unico strumento d’azione l’uso della forza, allontanando così definitivamente la ricerca di una pace autentica.

Un passo decisivo in questo senso implicherebbe in-vece il superamento dell’ideologia che sta falsando ogni approccio della realtà e la riscoperta di una ragione che non confonda la realtà con i nostri punti di vista, ma faccia umilmente i conti con la pura esperienza della realtà, senza la pretesa di possederne le leggi. È questa ragione che va cercata, per giudicare e per superare le astrazioni in cui ci rinchiude ogni controversia che non sia capace di contestare in linea di principio quella negazione della realtà che è tipica dell’ideologia, ivi compresa quella del Russkij mir. All’interno di un discorso ideologico, infatti, non esiste più una realtà qualsivoglia da descrivere nella sua banale esperienza, perché anzi, come dice la dottrina classica del realismo socialista, la realtà che tutti possono vedere è una realtà «scolastica e morta», mentre la «realtà effettiva» è quella che viene colta nella prospettiva del suo «sviluppo rivoluzionario» così che poi si può agevolmente e «legittimamente» considerare realtà non ciò che vediamo o che ci è attestato dalla storia, ma ciò che dovrebbe essere in base alla nostra interpretazione dei fatti (rivoluzionaria o putiniana che sia).

Con una simile premessa il Russkij mir, invece di essere un punto di vista sulla realtà che dovrebbe essere verificato alla luce di questa realtà, diventa la realtà in quanto tale (garantita dall’unica ricostruzione della storia considerata legittima); con due corollari non marginali: il primo è che, a queste condizioni, ogni opposizione a questo punto di vista diventerà illegittima e i confini ideati dal governo russo diventeranno la realtà che andrà ripristinata e difesa dalle pretese di quello che nella realtà autentica è invece il governo legittimo di quelle terre; la seconda conseguenza non marginale sarà che, nonostante ogni buona intenzione, per chi resta in questo quadro, l’unica pace possibile sarà quella offertagli dall’ideologia, cioè proprio l’eliminazione di questo governo. Se l’Occidente pare ancora spesso bloccato su queste controversie e incapace quindi di una speranza o di una prospettiva di pace che non sia quella dell’essere lasciati in pace, diversa è la situazione per chi, in Russia, pur non avendo sofferto la tragedia fisica dei bombardamenti, ha patito il dramma di questa rinnovata riproposizione della mentalità ideologica e, partendo da questa esperienza, ci mostra una via per uscire dai vicoli ciechi in cui ci siamo lasciati intrappolare.

Come faceva notare Svetlana Panic, studiosa russa riparata in Canada, dopo un anno di guerra esiste ormai uno «spartiacque invalicabile», ed è quello che «passa fra chi ritiene che esista una ragione “di Stato”, metafisica o comunque superiore per cui si possa invadere la terra altrui e uccidere i suoi abitanti, e chi pensa che la guerra sia un male assoluto e indiscutibile». Uscire dall’ideologia per ritrovare una speranza autentica non sarà facile dopo tanta ubriacatura ideologica, e presupporrà un duro lavoro «per riconoscere la vera complessità, quella che interroga ed esige che si distingua costantemente il bene dal male»; ma in fondo sarà proprio questo il vero lavoro per la pace, la vera forma di resistenza alla guerra, perché come dice ancora Svetlana Panic, «all’ideologia di cui la guerra si nutre fa comodo la disperazione nera che paralizza il desiderio di verità». E la vera sfida dei prossimi mesi: senza il presentimento di una verità, che non possediamo, ma che pure esiste, e alla quale tutti dovremmo rendere conto, per sopravvivere non ci resterà altro che affidarci a un equilibrio delle forze, sempre instabile e mantenibile solo con una lotta continua per avere la meglio sugli altri.

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