sabato 23 novembre 2019
Lo storico Walter Scheidel terrà la “Lettura del Mulino” sul tema del suo ultimo saggio: «Le disparità sono nate assieme all’agricoltura, alla fine dell’ultima Era glaciale»
Contrasti: ricchi e poveri ad Atene negli anni più duri della crisi finanziaria (Epa/Orestis Panagiotou)

Contrasti: ricchi e poveri ad Atene negli anni più duri della crisi finanziaria (Epa/Orestis Panagiotou)

COMMENTA E CONDIVIDI

I quattro cavalieri dell’Apocalisse non galoppano più. Da qualche decennio guerre e rivoluzioni, crolli dei sistemi statuali ed epidemie producono effetti meno devastanti rispetto al passato. Ci sarebbe da rallegrarsene, non fosse che, con il rarefarsi delle catastrofi, il livello di disuguaglianza sociale rischia di rimanere inalterato o, peggio ancora, di crescere ulteriormente. Questa, almeno, è la tesi sostenuta da Walter Scheidel nel corposo La grande livellatrice (traduzione di Giovanni Arganese; il Mulino, pagine 640, euro 35,00), un saggio che mette a tema il paradossale ruolo di redistribuzione della ricchezza che la violenza ha esercitato lungo i secoli. Professore di Storia antica all’Università di Stanford, in California, Scheidel mette a disposizione del lettore un’impressionante mole di dati e documenti, analizzando indicatori economici, serie statistiche e risultanze archeologiche. Disuguaglianza e violenza nella storia è anche il titolo della “Lettura del Mulino” che lo studioso terrà oggi alle ore 11.30 a Bologna, presso l’Aula Magna di Santa Lucia (via Castiglione, 36). All’origine di tutto, c’è una constatazione niente affatto prevedibile: il famigerato 1% degli ultraricchi regge le sorti del mondo da molto più tempo di quanto si possa immaginare. «Possiamo partire dalla fine dell’Era glaciale – suggerisce Scheidel –, quando l’umanità diventa stanziale e comincia a praticare l’agricoltura. È in questo momento che si afferma il concetto di proprietà, con il conseguente trasferimento di beni materiali da una generazione all’altra. Da qui in poi la disparità economica diventa inevitabile ed è acuita dagli sviluppi tecnologici, dai quali non tutti riescono a trarre i medesimi vantaggi. Ma anche l’emergere delle gerarchie politiche, ossia dello Stato, sostiene e rinforza la disuguaglianza attraverso strumenti che determinano l’assegnazione di redditi e patrimoni. La disuguaglianza, insomma, ha sempre svolto un ruolo fondamentale e caratteristico nella civiltà umana».

Nel XX secolo, però, il fenomeno si è fatto più evidente.

Più che altro ha cambiato di segno. In passato, infatti, la violenza era spesso impiegata per creare e mantenere disuguaglianza. Basti pensare all’oppressione esercitata dai grandi imperi, al colonialismo, alla schiavitù. I violenti mutamenti del Novecento, invece, finiscono per ridurre in modo significativo le distanze tra ricchi e poveri.

Come mai?

In Europa si assiste a un incremento della disuguaglianza che va dalla fine del Medioevo agli inizi del XX secolo, che segnano il picco del fenomeno, provocato dal sistema industriale di matrice capitalista. Dopo di che, le guerre mondiali conducono alla cosiddetta “Grande Compressione”. Per la prima volta si assiste a una mobilitazione di scala talmente vasta da mettere in discussione i privilegi delle classe abbienti. Le cause sono molteplici: il mancato ritorno degli investimenti, l’intervento aggressivo dei governi per ridurre i profitti nel settore privato e sostenere lo sforzo bellico mediante l’elevata tassazione di rendite e patrimoni. D’altro canto, la leva obbligatoria e l’industria bellica portano alla piena occupazione e all’incremento dei salari. Molti risparmi sono spazzati via dall’inflazione, fabbriche e abitazioni vengono distrutte dai bombardamenti. Tutto ciò porta, appunto, a una compressione del divario economico. Il resto lo fanno le riforme del dopoguerra, dall’estensione del diritto di voto fino al consolidarsi delle organizzazioni sindacali e all’istituzione dei sistemi di welfare. Cambiamenti decisivi, accomunati dal fatto di derivare dalle guerre mondiali.

L’attuale impennata della disuguaglianza andrebbe invece addebitata a una situazione troppo pacifica?

Per strano che possa suonare, nella storia la stabilità ha sempre giocato a favore della disuguaglianza, anzitutto perché favorisce le élite nella conquista e nell’accumulo di ricchezze. Nello specifico, dalla fine degli anni Ottanta i processi di globalizzazione e deregolamentazione hanno indotto a violare alcuni dei limiti che ci eravamo posti nel secondo dopoguerra. La fine della Guerra Fredda è parsa coincidere con il trionfo del capitalismo, anche in Cina e in Russia le leggi di mercato hanno avuto la meglio sulla pianificazione socialista. Pochi (anzi, pochissimi) hanno tratto vantaggi spropositati dall’espansione della finanza, mentre le trasformazioni tecnologiche hanno chiuso nell’angolo operai e sindacati.

I cambiamenti climatici non potrebbero esercitare un ruolo simile a quello che nel passato fu delle pandemie?

Giusta osservazione, che meriterebbe di essere approfondita. In effetti, lo sconvolgimento ambientale potrebbe rimpiazzare almeno uno dei quattro cavalieri. A cascata, ne potrebbero discendere guerre civili, il crollo degli Stati più deboli, perfino forme inedite di pestilenza. In ciascuno di questi casi, tuttavia, la disuguaglianza tra i diversi Paesi risulterebbe esacerbata, dato che le nazioni più povere sono anche le più esposte ai cambiamenti del clima e le meno preparate ad affrontarli, specie nelle regioni tropicali e subtropicali.

E le democrazie? Davvero non possono nulla contro la disuguaglianza?

Molti governi democratici ottengono buoni risultati attraverso la redistribuzione delle imposte e altri provvedimenti di riequilibrio sociale. Ma le democrazie, in particolare nei Paesi in via di sviluppo, possono anche essere preda di gruppi di interesse contrari alla riduzione delle disuguaglianze. La globalizzazione e le trasformazioni tecnologiche, poi, fungono da impedimento nei confronti delle politiche egualitarie. Da parte loro, gli elettori possono essere portati a trascurare l’importanza del tema perché troppo preoccupati dall’immigrazione, da questioni identitarie o da istanze ambientali. Sulla base delle ricerche attuali, dunque, non possiamo aspettarci troppo dalla democrazia in sé.

Vale anche per i flussi migratori, per i processi demografici, per la globalizzazione?

Ora come ora nei Paesi più ricchi questi fattori tendono purtroppo a far aumentare la disuguaglianza, non a ridurla. La globalizzazione restringe il raggio di manovra delle politiche nazionali e impoverisce la classe media; l’immigrazione sottrae consenso ai provvedimenti di redistribuzione, che si sospetta vadano a beneficio esclusivo dei nuovi arrivati; l’invecchiamento della popolazione provoca la crisi del welfare, perché a maggiori spese per l’assistenza corrisponde una minore disponibilità a sostenere i programmi contro la disuguaglianza.

Restano istruzione e sviluppo economico: qualche speranza può venire da qui?

Qualche aiuto viene senz’altro. Una nazione in fase di sviluppo è più propensa a tassare e redistribuire, oltre che a finanziare il sistema scolastico pubblico. In assenza del quale, è bene sottolinearlo, le disuguaglianze sarebbero ancora maggiori di quanto risultano oggi. Gli investimenti in questo settore portano a superare il divario tra le carriere scolastiche, in termini sia di durata degli studi sia di competenza accademica. Sotto questo profilo, nei Paesi europei la situazione è indubbiamente migliore rispetto agli Stati Uniti. Ancora una volta, però, questo effetto positivo non va eccessivamente enfatizzato. Ci sono fattori non meno importanti, dalla politica tributaria alla globalizzazione, che costituiscono una sfida decisiva per i governi. Non illudiamoci: nell’immediato futuro saremo costretti a gestire livelli di disuguaglianza ancora più elevati rispetto al presente.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: