giovedì 10 maggio 2012
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«Sentendo e leggendo quanto si diceva di lui, avevo l’impressione che l’uomo di cui si parlava, le cui immagini erano onnipresenti, non fosse quello di cui stavo preparando il funerale», sbotta Laurent Desmard, segretario dell’Abbé Pierre nei suoi ultimi 5 anni di vita. Tra la quantità di testimonianze emerse dopo la morte dell’Abbé sono state rare, infatti, quelle che evocassero la dimensione spirituale, pur così essenziale in tutta la sua esistenza. Perché è la fede ad avere spinto l’Abbé Pierre all’impegno pubblico. È dalla fede che traeva un’energia fuori dal comune, malgrado la fragile salute, come sottolineò l’arcivescovo di Lione Philippe Barbarin nell’omelia alla messa funebre, nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi: «La preghiera, la conversazione quotidiana con Gesù era il segreto dell’intrepido dinamismo dell’Abbé Pierre […]. Non ci si può impegnare nel servizio ai poveri e affrontare ogni genere di miserie con un tale entusiasmo, e fino all’età di 94 anni, se non si va ad attingere a una forza che viene da altrove». Per tutta la vita l’Abbé sarà animato da una fede intensa: dai suoi scritti di gioventù, quelle invocazioni rivolte a Gesù nei giorni di scoraggiamento («Questa sera, Gesù, mi sento un po’ sfasato ma sono felice anche nella mia tristezza») come nei giorni di gioia («O Gesù, ti amo, come sei buono, mi sento così felice stasera») fino all’ultima preghiera nella sua camera dell’ospedale Val-de-Grâce: «Prega per noi peccatori, adesso e nell’ora dell’Incontro...», prima di partire per le «grandi vacanze».
E poi ci sono quei 7 anni passati con i cappuccini, in estrema austerità. Un’esperienza che segnerà in profondità la sua vita, e in particolare una sete di adorazione che paragonava a un bagliore accecante. «L’aver vissuto in quel bagliore – spiegherà l’Abbé Pierre in Dio e gli uomini – ha instillato in me quel vuoto che spiega tutta la mia vita. Quel vuoto è ciò che mi è rimasto di quegli anni, di quelle notti di adorazione. Quando lo si è assaporato, non se ne può più fare a meno. La piega che mi ha impresso è incancellabile. Anche nell’azione che potrebbe sembrare ad essa più estranea, io ho sempre vissuto l’adorazione. E posso vivere la preghiera solo in quella forma […]. Per molti pregare è chiedere. Per me, pregare è adorare». E poi, la messa quotidiana. Dal giorno dell’ordinazione, l’Abbé Pierre l’ha celebrata ogni giorno, ovunque si trovasse, in qualsiasi circostanza. La messa aveva per lui un’importanza enorme. Era il momento forte della giornata, la sua «siesta dell’anima». L’eucaristia, il sacramento per eccellenza, è quello «che mi parla di più – diceva – e mi tocca anche in maniera più sensibile. È insieme il testamento di Gesù e la realizzazione della sua presenza tra di noi». L’Abbé Pierre era molto legato ai riti, anche se talvolta si prendeva delle libertà. «Mi è capitato spesso di celebrare con lui. Il suo rito era speciale e tipicamente suo. Mi spiegava l’origine di tutti quei piccoli oggetti che aveva sul tavolo», ricorda monsignor Gaillot. «La moderna semplicità dell’Abbé Pierre e nello stesso tempo la sua umile fede, segnata da una vita densissima e da un’educazione tradizionale, rendevano quel momento ancorato tanto a un presente pregnante quanto a un passato vissuto in pienezza. Era un vero bagno di sapienza», racconta Laurent Desmard, che ha dedicato un libro a La messe de l’Abbé Pierre. Fino al suo ricovero al Val-de-Grâce celebrava la messa nella sua cameretta di Alfortville, ogni sera alle sei. Potevano parteciparvi tutti, seduti intorno al tavolo suddiviso in due, una parte per i pasti, la messa e la scrittura, l’altra per ammucchiarvi documenti vari. Sul tavolo si poteva notare un cofanetto nel quale egli riponeva le ostie era un regalo di Maryam Rajavi, la presidente in esilio del Consiglio nazionale della Resistenza iraniana; per questo diceva che il pane che stava per consacrare era offerto dai musulmani. Al centro, una piramide di mani tese verso l’alto, regalo del cancelliere Kohl e di industriali tedeschi, simboleggiava la riunione della moltitudine verso Dio e l’offerta dei credenti. La piramide era posta tra una croce fatta di spighe di grano indorate, dono di un gioielliere svizzero, e una Madonnina di legno cui teneva molto. Infine, il suo messale con 29 pagine da lui illustrate e annotate, con sottolineature in diversi colori. Questo libro dalla copertina rossa ha seguito l’Abbé Pierre dappertutto nel mondo, protetto da una custodia di plastica nera contenente anche tovaglia, patena e immagini. Nel libro si alternano preghiere e testi con molte illustrazioni: san Francesco e il lupo, la Vergine con il Bambino, il ritorno del figliol prodigo del celebre quadro di Rembrandt, e poi le foto dell’abbazia di Saint-Wandrille, di dom Hélder Câmara, del cielo stellato di Béni-Abbès, di Elisabetta della Trinità, di Lucie Coutaz sul letto di morte, e anche una sua fotografia con Giovanni Paolo II. Nel messale sono infilate anche diverse foto di deserti, tra cui l’eremo di padre Foucauld a Béni-Abbès e il deserto dell’Hoggar, che sottolineano l’importanza per l’Abbé Pierre dei deserti, dei momenti di ritiro, come un ritorno alla vita monastica.
Un giorno, all’abbazia di Saint-Wandrille, un ragazzino di una decina d’anni gli domanda che cosa stia a fare lì, con il sottinteso che la vita monastica è un po’ egoista. Gli torna in mente allora una frase di un geologo, Pierre Termier: «Che cosa c’è di più sterile e inutilizzato dell’immensa superficie e massa dei ghiacciai? Sì, ma senza la loro presenza, senza la loro azione incessante, senza la loro apparente inerzia, la vita sarebbe da tempo scomparsa nelle pianure e nelle valli». La vita monastica per l’Abbé Pierre è come il ghiacciaio che rinnova l’atmosfera calda e inquinata, la quale s’innalza per purificarsi a contatto con le gelide cime prima di essere rinviata verso valle. «Essa può orientare lo sguardo della nostra intelligenza verso efficienze diverse da quelle apparenti », aggiunge. L’Abbé Pierre alterna una frenetica vita attiva a tempi di silenzio e di raccoglimento, scappando regolarmente in montagna («Io, in quota, sono in paradiso», aveva dichiarato), nei deserti o nel silenzio di abbazie come quella di Saint-Wandrille dove, dai primi anni Novanta, andava a «ricaricarsi» ogni due mesi. Periodi d’isolamento che considerava parte della sua igiene di vita. «Per quanto inconcepibile possa sembrare, l’Abbé Pierre è un contemplativo e non ha mai cessato di esserlo, perché non ha mai perso di vista il Signore. Sono queste le sue radici, il segreto primo della sua prodigiosa efficienza come pure della sua forza tranquilla nelle tempeste, quelle del cuore e anche quelle del corpo», scrisse il prete scrittore Michel Quoist. Amava i deserti per la solitudine nell’immensità, lo sguardo su di sé minuscolo e fragile, e l’ambiente propizio all’adorazione. «La presenza della montagna e del deserto – scriveva – ci fa penetrare nel cuore di ciò che possiamo chiamare i misteri del creato. Ci ricorda che il mistero è la sola alternativa all’assurdo». Nel 1992, per festeggiare gli ottant’anni, l’Abbé Pierre decide di andare nel deserto, nell’Assekrem, a 2800 metri di altitudine, dove Charles de Foucauld fu assassinato. Questa volta non calpesta la sabbia delle dune ma un terreno vulcanico nero, costellato da pinnacoli rocciosi che si elevano a 400 o 500 metri di altezza, che sembrano di lava solidificata in aria. «Che stupefacente e schiacciante meraviglia – esclama l’Abbé Pierre –. Ma sento di essere, qui, davanti a una “indicibile dismisura”». In questa bellezza arida sente, vede, respira la presenza tangibile di Dio.
Sull’altopiano cinque eremi, capanni di pietre ammucchiate, con una stanza minuscola e un oratorio ancora più minuscolo, a mezz’ora di distanza l’uno dall’altro. «Questi 8 giorni sono stati una grande grazia per la mia vecchiaia – scrive l’Abbé Pierre –. Questa specie di caos dell’orizzonte mi richiamava in modo confuso tutte le stragi e le catastrofi del mondo. La solitudine mi faceva ripensare, davanti a Dio e senza indulgenza, a tutti i passi della mia vita». E aggiunge: «Qui è davvero il caos. È anche il dolore del mondo e la gioia della speranza, nella certezza che attraverso i nostri piccoli sforzi d’amore siamo in cammino verso l’incontro con il nostro eterno amore. In questa solitudine passo una parte del mio tempo – è il mio lato manuale che riaffiora – ad arrangiare delle vecchie Polaroid per fotografare lo splendore delle stelle. Modifico l’apparecchio per bloccare la posa per il tempo sufficiente. Il risultato è stupefacente. Cerco di orientarmi verso il polo Nord, perché siamo ancora nell’emisfero nord. Le stelle formano un cerchio intorno al polo, con un’impressione di movimento. Questo mi tiene occupato ed è uno degli elementi della mia adorazione. E le stelle, così belle... In questo deserto ci sono solo le stelle e c’è solo la notte che siano veramente belle. La terra con la sua aridità ha qualcosa di mostruoso. Questo assoluto della privazione è inimmaginabile e indescrivibile. Dal punto di vista mistico, è il “nulla” che ritroviamo in san Giovanni della Croce, il nulla, in spagnolo nada, questo nulla che è il confluire in Dio di tutto ciò che è. Davanti a questo nulla si prende coscienza dell’essere dell’Eterno».
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