giovedì 27 febbraio 2020
Il 9 maggio 2019 la missione della “Mare Jonio” incontra, abbandonati su un canotto, trenta naufraghi. Una esperienza ora raccontata in un libro a quattro mani di Nello Scavo e Mattia Ferrari
Don Mattia e quel gommone altare di umanità
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S’intitola "Pescatori di uomini" il libro che don Mattia Ferrari ha scritto a quattro mani con l’inviato di “Avvenire” Nello Scavo. Il libro racconta l’esperienza diretta che don Mattia Ferrari ha vissuto l’anno scorso come sacerdote di bordo su una nave della Ong Mediterranea, all’interno della missione della “Mare Jonio”. Il libro esce dall’editore Garzanti e va in libreria oggi (pagine 144, euro 15). Don Ferrari testimonia un modello di Chiesa aperta alle sfide della modernità, che si fa simbolo di un impegno sociale sempre più diffuso tra le ultime generazione. Anticipiamo alcuni brani dove Ferrari racconta il salvataggio in mare di 30 naufraghi alla deriva su un gommone.

La nostra missione sulla Mare Jonio è giunta al culmine giovedì 9 maggio 2019. Alle 16 e 30 circa abbiamo avvistato un gommone in avaria con a bordo 30 migranti. Ci siamo subito attivati per il soccorso, con l’adrenalina che progressivamente aumentava nelle nostre vene. Non dimenticherò mai il momento in cui abbiamo avvistato il gommone e gli istanti in cui progressivamente ci avvicinavamo. Giunti in prossimità dell’imbarcazione, i volti di quelle persone sono diventati visibili ed è stato uno spettacolo fortissimo: erano volti prostrati, disperati, terrorizzati. Maso Notarianni, che aveva l’incarico di approcciarsi loro per primo, ha chiesto: «Where are you from?» (”Da dove venite?”). La risposta di quelle persone, gridata con un dolore straziante nella voce, è stata: «From the hell!» (”Dal-l’inferno!”), riferendosi alla Libia. Tra loro c’erano due donne incinte, una famiglia con una bambina di due anni, Alima, e quattro minori non accompagnati. Erano partiti dalla Libia da più di tredici ore, il motore era in avaria e il gommone stava andando alla deriva: se non fossero stati soccorsi da noi, sarebbero andati incontro a morte certa. Abbiamo poi iniziato i trasbordi dei naufraghi sulla Mare Jonio, abbiamo dato loro da bere e da mangiare e abbiamo avviato le procedure di identificazione, mentre il nostro personale medico, veramente in gamba, costituito in quell’occasione dal dottor Guido Di Stefano e dall’infermiere Alessandro Fanari, provvedeva a curare le ferite più gravi.

Abbiamo intanto segnalato l’avvenuto salvataggio al Centro di coordinamento del soccorso marittimo (MRCC) di Roma e abbiamo chiesto loro l’indicazione di un porto sicuro mentre facevamo rotta verso Lampedusa, il porto sicuro più vicino, come prescrive la legge internazionale. Dopo aver bevuto e mangiato qualcosa le persone migranti soccorse hanno ripreso un po’ di forze e realizzando di essere state salvate, hanno iniziato a cantare, a pregare, a ballare. È nata una grande celebrazione della vita e dell’unica grande famiglia umana unita nella fraternità universale. È stato impressionante: c’erano persone che provenivano da vari Paesi dell’Africa e dal Bangladesh e professavano religioni diverse (alcuni erano cattolici, altri pentecostali, altri musulmani) e a loro si sono uniti i vari membri dell’equipaggio che provenivano da varie città e da appartenenze culturali e ideologiche molto eterogenee. Quella notte ho sperimentato quanto sia vero quello che dice papa Francesco, quando afferma che dobbiamo lasciarci evangelizzare dai poveri: lo sperimentiamo tante volte nei luoghi in cui si vive la fraternità con gli ultimi del mondo e l’abbiamo sperimentato molto bene la notte del salvataggio. Il grande abbraccio che ci ha uniti tutti insieme quella notte è stato un meraviglioso quadro dell’umanità. In quel momento tutti abbiamo sentito nel cuore come la vita sia un dono e come davvero prima delle varie appartenenze geografiche, sociali, culturali, ideologiche, religiose, ci sia un’unica grande appartenenza, quella della famiglia umana, e abbiamo gustato quanto sia bello scoprirci membri di questa grande famiglia, chiamati ad amarci e a prenderci cura degli altri esseri umani come fratelli e sorelle.

È in questo che la nostra vita trova senso. Quella notte ho provato una gioia immensa, indescrivibile: la gioia che prova l’uomo quando vede realizzato il sogno di Dio, cioè che tutti gli uomini formino un’unica grande famiglia, in cui nessuno sia scartato, escluso, non voluto. Quella notte ho visto un anticipo del Paradiso. Sono infinitamente grato a Mediterranea, ai miei compagni di viaggio e alle persone migranti che abbiamo soccorso per avermi mostrato la realizzazione del sogno di Dio sul mondo. Vorrei che ogni persona che abita sulla Terra sperimentasse la bellezza di essere un’unica famiglia umana unita nella fraternità universale così come l’abbiamo sperimentata noi quella notte. Una gioia simile la provo quando vedo la fraternità universale realizzata nella missione a terra: quando nelle parrocchie, nei centri sociali e nelle altre realtà vedo accolti come veri fratelli e sorelle gli ultimi, gli esclusi, e vedo che insieme a loro si vive l’amore e si costruiscono la giustizia e la fraternità. Queste scene sono i germi della civiltà dell’amore, sono la presenza del Regno di Dio tra noi di cui ci ha parlato Gesù. Tutti gli uomini, e in particolare chi si professa cristiano, hanno il compito di estendere questa civiltà dell’amore, costruendola giorno dopo giorno nella propria vita.

La gioia di vivere che sprigionavano le persone soccorse, il loro abbracciare ciascun individuo presente a bordo, di qualsiasi provenienza geografica, religiosa e culturale, come un fratello e una sorella, il loro guardare avanti con fiducia e speranza nonostante tutto quello che avevano passato, il loro non portare rabbia dentro pur avendo subito cattiverie atroci, la loro determinazione nello sfidare i confini posti ingiustamente dalle autorità umane… tutto questo è stato per noi un grande insegnamento. La notte del salvataggio noi dell’equipaggio abbiamo avuto chiara una consapevolezza: anche se siamo noi che abbiamo salvato quelle persone strappandole dalla morte in mare, in realtà sono loro che hanno salvato noi. Loro ci hanno ricordato il vero senso della vita, ci hanno strappato dalla disumanità in cui la nostra società si sta inabissando... Da prete so che in fondo la mia è la missione della “barca di Pietro”. Ma mai mi sarei sognato di salire un giorno su un’altra “barca di Pietro” perché insieme ad altri diventassimo, letteralmente, “pescatori di uomini”.

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