martedì 6 aprile 2010
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«Le parole guariscono, come le erbe»: intorno a questo potere salvifico della letteratura Luigi Santucci ha incentrato la sua poetica, tanto che nel romanzo Orfeo in Paradiso spesso ritorna ad esplicitare la loro forza: «In ogni parola, meditaci un poco, c’è un pezzetto del paradiso perduto e insieme di colpo riconquistato». Un romanzo anomalo nel percorso della narrativa italiana, questo di Santucci, senz’altro uno dei suoi più noti, insieme al Velocifero(1963), l’unico che si ritrovi oggi in libreria, pubblicato negli Oscar Mondadori, insieme a Volete andarvene anche voi?, la storia di Cristo, riletta in modo inusuale, ripreso da San Paolo agli inizi di questo nuovo millennio. Su Santucci l’oblio come scrittore fortunatamente non è ancora sceso del tutto, grazie alle giornate di studio, ai contributi critici.  È il mondo di un’editoria senza più "catalogo" ad aver dimenticato i suoi libri.Tutto Santucci era edito negli Oscar Mondadori, ma via via si è scelto di non più ripubblicarlo. È un grosso torto, nemmeno riparato da un "Meridiano" che Santucci meriterebbe tutto, una raccolta del suo percorso letterario che documenti come, di libro in libro, lo scrittore lombardo abbia anticipato soluzioni postmoderne, legate alla rappresentazione onirica, al tempo di un immaginario che si costruisce attraverso la rilettura dei grandi temi filosofici e teorici: la nascita e la morte, l’ossessione del grembo, la questione del tempo e quanto l’originalità della sua narrativa rimandi a dialoghi con la tradizione europea e con le grandi forme del mito. C’è un altro libro che andrebbe assolutamente riportato alla luce dei lettori di oggi, Il mandragolo, senz’altro una delle pietre miliari della nostra narrativa degli anni Settanta.Su Santucci probabilmente ha pesato l’etichetta, che in quegli anni era decisamente "marchiante" di scrittore cattolico, etichetta che in qualche modo creava "sospetto" rispetto agli scrittori considerati laici. Eppure sono in molti a sostenere, come ha fatto in più occasioni Gianfranco Ravasi, che le parole di Santucci devono ritornare ai lettori di oggi. Tra l’altro aveva scritto: «Nei suoi percorsi teologici non mancava un filo oscuro, segno di un più vasto orizzonte di tenebra. Il tema del male aveva sempre tormentato la ragione e l’arte di Santucci, così come il dramma della morte: basterebbe solo riprendere tra le mani Il Mandragolo del 1979 o quel gioiello letterario che è l’Orfeo in paradiso del 1967 (a proposito di quest’ultimo, perché non riproporlo a nuovi e vecchi lettori negli Oscar Mondadori?)».Il suo suggerimento è ora stato accolto, ma non sono gli Oscar a riportare in libreria Orfeo in Paradiso. La sfida di credere in questo libro l’ha raccolta Marietti 1820, in un’edizione curata da Daniele Piccini, da oggi in libreria (pagine 224, euro 20). Del resto l’importanza di questo suo testo, uscito nel 1967, vincitore quell’anno del Premio Campiello e dal quale, nel 1971, è stato realizzato uno sceneggiato televisivo di Leandro Castellani, alla cui partitura aveva lavorato anche Italo Alighiero Chiusano, interpretato da Alberto Lionello, viene indicata dallo stesso Santucci, nel suo "testamento morale". Scrive: «Il passato non è solo, vedete, una parola, è qualcosa di ben più: è una realtà che ci appartiene, e che nessuno (nemmeno Dio) ci può togliere. L’ho meditato e scritto nell’Orfeo in paradiso, che il passato "non" è un soffio confuso e illusorio di parole e immagini e sensazioni perdute; ma è un paese che ci appartiene (ci appartiene profondamente e incancellabilmente) e nel quale possiamo in qualche modo abitare, dal quale nessuno ci può mai scacciare, neppure la morte. Come lo possiamo abitare? Con la memoria e con l’amore». In Orfeo in Paradiso Santucci sceglie forme assolutamente non convenzionali per raccontare questa necessità di ritornare là dove il tempo l’ha legato a sentimenti profondi, fino all’infanzia della madre, nella Milano tra fine Ottocento e inizi Novecento. Per poter compiere questo viaggio Santucci introduce una chiave "faustiana", quella di un patto con il Diavolo, che nel romanzo assume le sembianze di Monsieur des Oiseaux e si manifesta attraverso un trattatello filosofico in forma epistolare. Piccini però sottolinea come non si tratti di un vendere l’anima, ma di un altro tipo di tentazione che rimanda il modello di Santucci a un nome di punta della tradizione inglese: «Monsieur des Oiseaux rappresenta l’emblema di una tentazione sottile, pervasiva, efficace: come tale Santucci la rappresenta, figurando – al pari del godibilissimo C.S. Lewis delle Lettere di Berlicche (1942) – un aspetto suadente e abile del demoniaco, tutt’altro che folcloristico». Un demone che si ingegna quindi in una «parodia della grazia divina» e che permette a Santucci questo volo chagalliano verso il tempo della giovinezza materna, un volo che "scompone" il tempo. Santucci riletto oggi risulta uno scrittore modernissimo, la cui lezione è molto più originale e forte di tanti scrittori "laici" e alla moda dei suoi anni, forse anche per la capacità di dialogo con altri esiti letterari, come quello di Caproni che, nel Seme del piangere, come ricorda Piccini, pubblica "Ultima preghiera", sulla morte della madre. Santucci inserisce questo testo nella sua antologia sulle poesie dedicate alla madre. Ha ragione Piccini quando scrive che la reinvenzione di Santucci del mito di Orfeo sembra riprendere ed estremizzare nella narrazione «il sognante invito a ritroso nel tempo di Caproni, la sua fantasia di compresenza alla vita della madre giovane».E Santucci nel testamento conferma: «Più è stato forte l’amore, più salda e nitida è la memoria che ci conserva quel passato, che ci compensa di quella realtà scomparsa. Ma sì, andate magari a rileggervi nelle prime pagine dell’Orfeo quella teoria della "scomposizione del tempo", del tempo che ci appartiene nell’amore. Non è un gioco di parole o di concetti. È l’unico modo – come dire – magico e segreto, per fare i conti con la morte di chi amiamo, e ancora al di qua della religione e della fede».
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