giovedì 2 settembre 2021
Già don Milani lanciava l’allarme: questa società non più cristiana ha bisogno di slancio pastorale capace di cogliere il buono fuori dagli schemi, di trovare i segni del Regno di Dio da annunciare
Adrien Candiard

Adrien Candiard - Juzzolino

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Pubblichiamo qui la parte conclusiva della prefazione di monsignor Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola e vescovo di Carpi, nonché vicepresidente della Cei, al nuovo libro di Adrien Candiard, domenicano, francese, autore di spiritualità tra i più letti in Europa, La speranza non è ottimismo. Note di fiducia per cristiani disorientati da oggi in libreria (Emi, pagine 112, euro 12,00). Candiard, 39 anni, attualmente risiede a Il Cairo, dove studia l’islam all’Institut dominicain d’études orientales ed è priore del locale convento del suo ordine. Autore degli apprezzati Sulla soglia della coscienza, Pierre e Mohamed, Comprendere l’islam (Emi) e Quando eri sotto il fico (Queriniana), con La speranza non è ottimismo ha ottenuto nel 2016 il Premio per il miglior libro assegnato dai librai religiosi di Francia.


Gli esseri umani vivono costantemente situazioni di crisi di tutti i tipi, compresa oggi una crisi esistenziale in molti paesi europei; e, cosa più difficile da accettare per i cattolici, che «non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata ». Un momento: non pensi il lettore che queste siano parole di qualche autore; sono parole che papa Francesco ha pronunciato il 21 dicembre 2019, porgendo l’augurio natalizio alla Curia romana […]. Non è finito il cristianesimo; è finita la cristianità, ossia quel sistema che – nel bene e nel male – aveva creato un’alleanza tra chiesa e società, tra cristianesimo e cultura, tra religione evangelica e religione civile. Anche nel bene, certo: una certa osmosi di valori facilitava la condivisione di idee, metodi e obiettivi; una buona consonanza di interessi permetteva alle comunità cristiane di offrire un apporto culturale e cultuale apprezzato, omogeneo a quel complesso di idee «comuni», fino alla condivisione della «legge naturale», che incrociava addirittura diverse visioni della vita e differenti parti politiche. Ma tutto questo è caduto: in Francia prima che in Italia; ma inevitabilmente anche in Italia, a ruota della Francia. Nel 1943 un libro, La France, pays de Mission?, di due preti parigini, Henry Godin e Yves Daniel, decretava la secolarizzazione imperante e irreversibile di larghi strati della società francese; nella «figlia primogenita della Chiesa» appariva per molti all’improvviso – ma per i più attenti già da tempo – una ma- lattia mortale: il crollo della fede cattolica. Negli anni seguenti un seminarista di Firenze, insieme ad alcuni suoi compagni, si impegnava a tradurre quel libro in italiano: era Lorenzo Milani, che quindici anni dopo ne pubblicherà una specie di «versione italiana», anche se totalmente originale perché ritagliata sulla sua esperienza di cappellano a San Donato a Calenzano: Esperienze pastorali. Milani, ormai priore a Barbiana, aveva capito bene che il processo sarebbe andato avanti, e che l’illusione dell’«eccezione» italiana sarebbe caduta. In realtà questa illusione è andata avanti ancora per decenni e in alcuni ambienti ecclesiali perdura. Non voglio essere disfattista né profeta di sventura; vedo anch’io quanto bene, quanti frutti dello Spirito, quanta generosità sia presente nelle pieghe del nostro popolo. Ma mi sembra proprio che non facciano più «sistema». Mi sembra che sia di sconcertante attualità quella pagina 96 del libro di don Milani che riporta due foto in bianco e nero scattate in parrocchia, durante la processione del Corpus Domini, nelle quali si vedono distintamente parroco e cappellano in cammino con un gruppetto di fedeli, mentre tante persone, ferme ai lati, stanno a guardare incuriosite. Con alcune didascalie che fanno pensare. Sotto la prima foto: «Passa il Signore. Serenata di fiori, veli bianchi, festa di paese. Trionfo della fede? Ma il gruppo di uomini che segue il Signore non è la parrocchia, è solo una chiesuola senza peso. La parrocchia si gode lo spettacolo e si tiene a dovuta distanza». E sotto la seconda foto: «Identico è il pensiero dei due preti in processione: il 93,2% delle pecorelle che restano fuori. Ma diverse sono le loro preghiere. Il Prevosto prega così: Signore perdonali perché non sono qui con Te. Il Cappellano (don Lorenzo, ndr) così prega: Signore perdonaci perché non siamo là con loro». Solo dal realismo nasce la speranza. Prendiamo atto, con coraggio, che dobbiamo recuperare l’essenziale: l’annuncio del vangelo attraverso la relazione con le persone. Non è una novità, certo: è il metodo stesso di Gesù. Nuova è piuttosto la situazione, che non garantisce più nulla, non permette più di vivere di rendita, ma richiede di riconquistare palmo a palmo il terreno: non però facendo leva sulle strutture, ma accogliendo, ascoltando e incontrando le persone; non rimarcando i valori irrinunciabili, ma testimoniando la bellezza della fede; non cercando di occupare spazi, ma favorendo percorsi. Nella Evangelii gaudium papa Francesco traccia le piste per questo cammino pastorale. Allora troverà ancora orecchio l’annuncio della speranza cristiana, escatologia compresa: sono riaffiorate nel periodo della pandemia le grandi domande di senso, ma sono pronte anche a reimmergersi nella palude della superficialità, se nessuno le prenderà sul serio. Ecco la scommessa, che aggiorna la grande impresa di Gesù, annunciare il Regno di Dio, e che può rendere credibile ancora per molti la buona notizia della Pasqua.

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