sabato 10 dicembre 2022
Esce il resoconto del germanista francese che nel 1936 denunciava l’indottrinamento nazista e il suo carattere anticristiano. E un saggio di Speccher mette a tema i conti della Germania con il passato
Ragazzi della Gioventù hitleriana nella piazza Lustgarten a Berlino nel 1933

Ragazzi della Gioventù hitleriana nella piazza Lustgarten a Berlino nel 1933 - Bundesarchiv

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Tra chi si accorse subito del pericolo che Hitler rappresentava per il mondo e comprese che la sua visione era radicalmente anticristiana, va senz’altro annoverato il francese Robert d’Harcourt. Questi nel 1936, tre anni dopo la presa del potere del nazismo, dopo una visita nel Paese, scrisse un libro, L’ Évangile de la force, che denunciava l’indottrinamento e l’inquadramento di una gioventù spaesata. E la spaccatura che la propaganda del regime stava provocando tra i cristiani. Il libro – messo sotto sequestro insieme alle altre opere dell’autore dai nazisti occupanti della Francia – viene ora tradotto in italiano ( Il Vangelo della forza, San Paolo, pagine 224, euro 18,00). Rispetto all’edizione francese del 2021 viene pubblicata una nuova prefazione, scritta ad hoc dallo storico Valerio de Cesaris, rettore dell’Università per stranieri di Perugia. Quella francese, opera di Jean de la Rochefoucauld, viene mantenuta come postfazione, in modo da dare un profilo dell’autore e della sua ispirazione culturale, spirituale e morale. D’Harcourt conosceva bene la Germania. Preclusagli la carriera militare che si apriva ai rampolli del ceto nobiliare, cui apparteneva, per essere stato gravemente ferito nella Prima guerra mondiale, iniziò quella di studioso di germanistica, materia che insegnò all’Institut Catholique di Parigi, dove si era formato.

Ben prima del luminoso esempio che diedero, dopo la disfatta tedesca in Russia, gli studenti martiri della Rosa bianca (impregnati di umanesimo cristiano) d’Harcourt, dunque, denunciò la passività alla quale, loro malgrado, gli studenti cattolici, come più in generale i giovani tedeschi, erano indotti a soggiacere. « Mentre i suoi coetanei della gioventù hitleriane sono rumorosi, percorrono le strade delle città in corteo, sono ammirati dalla gente», il giovane cattolico «fedele alla sua associazione confessionale conduce un’esistenza senza colore e senza prestigio, appartata, come un mezzo paria ». Resta nell’ombra e su di lui incombe «la peggior malattia che possa colpire l’adolescenza: quella dell’anemia perniciosa causata da atmosfere confinate». Certo, l’autore premette di non voler lanciare nessuna accusa e non manca di sottolineare ciò che c’è alla base di tale passività: il clima d’intimidazione fatto di perquisizioni e arresti. Allo stesso tempo, però, sprona il cattolicesimo tedesco a non attuare una tattica difensivistica, come quella adottata per prudenza dai vertici, che condurrebbe alla «disfatta». Anzi, come luce di speranza indica l’azione di una minoranza fervorosa, un «resto» dal «cuore fiero e indomito» che si differenzierà dai «tiepidi» e darà del filo da torcere ai potenti. Non aggrappandosi a fattori materiali e organizzativi, ma attingendo al profondo. «Gli adoratori del “dinamismo del sangue” - avverte - in realtà sono deboli, perché non contano sulla forza dello spirito».

Sono due, per De Cesaris, gli aspetti «decisivi» dell’analisi in presa diretta di d’Harcourt: «La capacità del nazismo di sedurre i giovani più che gli adulti per il suo carattere “religioso” e totalitario » e «l’inconciliabilità tra i due modelli pedagogici, cattolico e nazista, tra il Vangelo di Cristo e il vangelo della forza e della razza». Contrapposizione individuata da papa Pio XI nella Mit brennender Sorge. Seguita un anno dopo, nel 1938, da una lettera pubblicata dall’episcopato nazionale contro l’idea di un “Dio tedesco”. Lo storico non manca, poi, di inquadrare il fenomeno nel più vasto scenario europeo. Sia per ciò che riguarda l’irregimentazione della gioventù, che fu operata anche dai totalitarismi fascista e comunista. Sia per la spaccatura tra i cattolici, che investì anche l’Italia. Infine, De Cesaris ricorda altri autori che seppero individuare il pericolo che dal nazismo veniva non solo per Germania e Italia, ma per l’Europa del futuro. Mario Bendiscioli, non a caso un altro germanista, nello stesso anno di d’Harcourt pubblicò per Morcelliana un saggio La Germania religiosa del Terzo Reich, che giungeva a conclusioni simili Lo scrittore francese all’inizio del suo pamphlet descrive la «psicosi della disperazione» i cui la gioventù di Weimar era caduta, sentendosi tradita nelle sue aspirazioni. D’Harcourt, monarchico in gioventù, non esitava perciò a criticare anche i politici della Repubblica di Weimar. In questo de la Rouchefoucauld paragona il suo percorso a quello di un altro grande d’Oltralpe, George Bernanos. Entrambi avevano simpatizzato per l’Action Française di Maurras. Poi negli anni Trenta se ne erano distaccati, invocando una «rivolta universale dello spirito» contro i fascismi.

Il germanista francese dopo aver servito la Resistenza con i suoi scritti senza poter combattere (nella Grande guerra aveva perso l’uso di un braccio) dopo il 1945 si batté per la riconciliazione tra il suo paese natale e quello tanto amato, ancora distanti e non divenuti il motore dell’Europa unita. Morì nel 1965. Proprio quando si concludeva a Francoforte, dopo due anni, il processo su Auschwitz che vide alla sbarra 22 imputati. Davanti al tribunale comparvero in 183 sedute, 360 testimoni, di cui 170 sopravvissuti al campo di sterminio. Furono prodotti 75 faldoni di documenti e centinaia di fonti, che portarono i pubblici ministeri a redigere 700 pagine di accusa. Alla fine le condanne, però, furono per “pesci piccoli” e in secondo e terzo grado furono ridotte. A iniziarlo, pur non comparendo poi ufficialmente poiché inviso a molti, era stato Fritz Bauer, «uno dei giuristi tedeschi più importanti del secondo dopoguerra», lo definisce Tommaso Speccher in La Germania sì che ha fatto i conti col nazismo, uscito per la collana “Fact checking: la storia alla prova di fatti” dell’editore Laterza (pagine 184, euro 14,00). Al di là degli esiti contraddittori, quel processo - anche grazie alla notorietà internazionale della piéce teatrale L’istruttoria di Peter Weiss - «rappresentò un punto di non ritorno nella percezione collettiva» dei crimini nazisti. L’autore - divulgatore e ricercatore presso alcuni musei berlinesi come il Museo ebraico, la Topografia del Terrore e la Casa della Conferenza di Wannsee - mostra il tortuoso percorso che ha portato alla cultura della memoria odierna. Tra silenzi e politiche di denazificazione a dir poco timide, fino all’oggi. «”Fare i conti con il nazismo” - conclude Speccher - è stato un processo osteggiato dai più, provocato da alcuni ma, in fin dei conti, il risultato inevitabile di una presa di coscienza collettiva e della costruzione della società civile tedesca odierna».

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