sabato 21 agosto 2021
Inaugurata a Rimini l’opera celebrativa dell’arte del grande regista di cui è ricorso il centenario della nascita. Reale e fantastico uniti in uno sguardo incantato e senza tempo tra i sui film
A Rimini l'inaugurazione del Museo Fellini

A Rimini l'inaugurazione del Museo Fellini - / Museo Fellini/Lorenzo Burlando

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Nel 2018, a due anni dal centesimo anniversario della nascita di Federico Fellini, fu indetto un concorso internazionale per il polo del Fellini Museum, vinto dal gruppo capeggiato da Studio Azzurro (fondato nel 1982 da Paolo Rosa, Fabio Cirifino, Leonardo Sangiorgi, con Osvalda Centurelli) e Lionello Cerri (Lumière film e Anteo di Milano), con gli architetti Orazio Carpenzano e Tommaso Pallaria, Marco Bertozzi, studioso di cinema e di Fellini (di cui ricordo il bel libro L’Italia di Fellini), e la museologa Anna Villari. Il polo è una triade: il “brunelleschiano” Castel Sismondo su piazza Malatesta, a sud-ovest nella cerchia delle mura che guarda verso il Montefeltro; il settecentesco Palazzo Valloni sede del cinema Fulgor, sul decumano del Corso d’Augusto che in linea retta unisce il Ponte di Tiberio con l’Arco d’Augusto; la stessa piazza Malatesta, con il retro del Teatro Galli. Tutti recuperati in anni recenti. Fino al 1967 il Castello era stato degradato a carcere.

Il Teatro risplende dopo settant’anni di rovine. Il Fulgor, dove Fellini vide il suo primo Maciste all’inferno, sulle ginocchia del padre, dove trasse ispirazione di vignettista, e che fece rivivere in Roma e in Amarcord, è stato ristrutturato da Annio Maria Matteini, mentre la rutilante scenografia hollywoodiana è del premio Oscar Dante Ferretti. Piazza Malatesta, «il piazzale polveroso, sul quale sostavano i circhi: un piazzalone sbilenco, dove finiva la città» (così Fellini nella Mia Rimini, 1967, poi in Fare un film, 1980), è diventata uno specchio, una superficie acquea alta 5 cm, su 1000 mq, che leva vapori di nebbia, riflette e moltiplica le immagini proiettate. Sul fianco ovest del teatro, davanti al campanile di santa Colomba, un “circo della vita” prosegue l’anello di pietra che accenna alla passerella finale di : pochi passi per la piazzetta San Martino, dietro al Fulgor, dove la rinocerontessa della Nave va attrae festosamente i bambini.

In allestimento, su piazza Malatesta, una rievocazione della campagna, con i segni di Amarcord, e di Tonino Guerra, che vi collaborò. Quando Fellini era adolescente, la Rimini nobile e antica era tagliata in due dalle stagioni: due Rimini diverse, di mare e cittadina, e Castel Sismondo era la Rocca, la prigione di Francesca, «piena di ladruncoli di sacchi di cemento e di ubriachi. Quel tozzo e tetro edificio m’è sempre rimasto in testa come una presenza nera, nel ricordo della mia città». Perché rievoco questo trascorso, prima di parlare del bellissimo allestimento fatto da Studio Azzurro agli interni del Castello e del Fulgor? Perché esso, oltre a essere specchio di Fellini, e del suo rapporto con la città d’origine, investe molti problemi, che dal passato riguardano il futuro, non solo a Rimini. Perché Rimini è città di frontiera, costruita sulle sabbie labili, dove dopo i Malatesti prevalgono sempre più anarchie, perdite di memoria: un Rubicone da saltare, che Fellini reincarna profondamente.

Perché questo problema riguarda il concetto di salvaguardia e valorizzazione, di “Museo”, di restauro, di fruizione, di senso da dare alle nostre città così ricche di testimonianze e d’arte. Si teme che predomini l’economico nel senso più volgare e ristretto del termine: tutti i film di Fellini, soprattutto gli ultimi, da Prova d’orchestra a Ginger e Fred alla Voce della luna, ne hanno previsti gli scenari futuri. Le metamorfosi sono continue, si ha paura delle irreversibilità dei mutamenti; si vorrebbe disseppellire, mettere alla luce ed esporre ogni viscere, purché tenga legati al passato. Eppure, il centro storico di Rimini ha ripreso molti grandi complessi: gli Agostiniani, i Gesuiti, dove è il Museo, saranno completati, Arengo e Palazzo del Podestà disposti per la collezione d’arte di San Patrignano, e tutto è un cantiere.

Di questo carattere di trasformazione, nel bene e nel male, Fellini era il primo curioso osservatore, nei suoi non facili ritorni nella paterna città nativa, complementare a Roma materna, con Cinecittà. Determinava un’impronta ritmica della sua natura artistica, anche nel conflitto, nei sensi di colpa, nella rimemorazione remota. Del resto il cinema è l’arte più mobile, comprensiva delle altre, quasi “opera totale”. Fatta dalla luce, concentra letteratura, pittura, musica, dramma. Il cinema è l’arte più fluida, che possa rappresentare la trasformazione, non solo in senso documentario. E allora, come portare il cinema al Museo? Di più, come rappresentare il più immaginoso, complesso e complicato dei registi, inesauribile nelle sue infinite sfaccettature di artista ancora rinascimentale, senza ingabbiarlo in stereotipi, o nel triste bric à brac dei cimeli, o nella “riduzione ad aggettivo”, per cui felliniano rischia di tradursi in disneyano? Infine, quel «tozzo e tetro edificio» – in realtà maestoso – che muoveva in Fellini la sistole diastole di attrazione repulsa delle origini, avrebbe avuto luce, respiro, profondità?

Entriamoci. La prima sensazione all’ingresso, varcato il grande portone, con quel pendulo scanzonato Sceicco bianco, ha tolto il primo dubbio: il senso dell’opportunità e della proporzione. Non stonava nemmeno lì, nella domus sigismondea. All’entrata, un’aerea filza di fogli appesi avvia alla prima esperienza di Fellini: giornalistica, disegnativa, radiofonica. Le prime sale, dove la presenza del dolly e delle sue mobili prospettive dall’alto, quelle delle muse identificative, Mastroianni e Masina preludono alle articolazioni di Rimini e Roma: indicano la via, ti lasciano muovere provocando curiosità e magie che le proiezioni suscitano, come la nebbia, il mare d’inverno, le piccole finestre sul pavimento che si aprono sui filmini amatoriali dei riminesi (felice idea del Bertozzi documentarista, attento a quel reale che Fellini cattura in icone).

Subito si ha la percezione degli spazi profondi, nell’alto, negli scorci, nel basso, che in certi punti evoca il sotterraneo dei film di Fellini. Ogni angolo architettonico del castello risalta in allestimenti nitidi che non coprono le pareti né occludono la vista, sotto luci perfette. Si sale, ed ecco l’enorme morbida Ekberg delle Tentazioni del dottor Antonio, cedevole nell’offrire sussurri. Nell’ammezzato i costumi del Casanova e di Roma di Danilo Donati, fragranti di pizzi e stoffe, rivivono tra specchi triplici, e prospetti di scene. Per sedici nuclei, che corrispondono ad altrettante sale, la scelta di mostrare per allusioni e suggestioni, si dipana con acuta intelligenza delle priorità, offrendo una grande ricchezza di documenti di natura diversa, sceneggiature, foto, testimonianze ben raccordate, le possibilità delle ricerche da perseguire.

Le “macchine” che scatenano l’immaginazione virtuale e sinestesica sono incredibilmente semplici, occultate, da scoprire; sono simboli: confessionali che ricordano quelli di 8 ½ , schedari d’archivio, schede da estrarre che parlano e mostrano, un cavalletto, una piuma, quattro altalene sui cui sono montati grandi schermi che – potenzialmente per quaranta minuti – propongono una straordinaria storia dell’Italia mescolata con i film di Fellini. Ben distinti, isolati, intervengono i collaboratori di ogni specie. I volti dei candidati, ogni sorta di persone che scrivono a Fellini, le lettere salvate da Gérald Morin, suo collaboratore, e passate alla Fondation Fellini pour le Cinéma di Sion. Una saletta con libreria, invita alla sosta. Per sedici gruppi tematici di passioni letterarie di Fellini, la voce di chi scrive racconta il rapporto di Fellini con gli scrittori, vivi e morti, i fumetti, i pittori, il paranormale, l’esoterismo, Jung e l’I Ching, ai quali era stato avviato da Thomas Bernard, che l’aveva confortato facendogli iniziare il lavoro con i sogni.

Ne sarebbe risultato lo straordinario Libro dei sogni, e il libero ricorso alla potenza di simboli e archetipi, in ogni film. Ciò che colpisce è l’estrema eleganza delle soluzioni, leggere come la piuma che soffiata proietta i sogni di Fellini sulla parete: proposte dense e sobrie, mai invasive, ambientate con una naturalezza che valorizza ogni vano, talvolta suggerendo perfino, senza forzatura, le dimensioni cave dei sogni – quelle altezze che compaiono nel Satyricon, in , nella Voce della luna e che incantano nella sala delle altalene. Osvalda Centurelli, parlando del Fulgor, dove, oltre che percorsi di studio, si allestisce “La casa del mago”, “La stanza delle parole” con la voce di Fellini, assicura che sarà perfino più suggestivo.

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