mercoledì 11 aprile 2012
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​Era una battuta, piuttosto lugubre, ma allora - erano gli anni Sessanta - circolava come un titolo di merito. «"Bild" è stato il primo a parlare con il cadavere» era il vanto. E si diceva che i cronisti del vendutissimo tabloid tedesco (oggi 5 milioni di copie al giorno) andassero a nozze con i fatti di nera più truci, gli scandali e i disastri naturali: notizie succulente su cui piombavano con strabiliante puntualità e che poi sapevano montare ad arte. Certo quelli del "Bild" forse esageravano ma in fatto di notizie sensazionali non avevano inventato nulla. Raccontare per primi, strillare o incantare il prossimo con una mostruosità fanno parte di un savoir faire vecchio quanto il mondo. Certo è che negli ultimi cinquant’anni proprio quest’arte si è perversamente raffinata. Il mondo della comunicazione è diventato un arsenale di cronache da sparare ad alta pressione, notizie attinte là dove lo shock, il record, il limite, il dolore, le lacrime, le bestemmie, lo strazio della morte o la distruzione sono così acuti e penetranti da diventare un’iniezione multisensoriale. L’informazione e in genere la comunicazione hanno rovesciato la logica delle notizie: dal comunicare qualcosa perché importante – perché riguarda tutti – si è approdati alla fabbrica delle notizie che attinge a ciò che può attrarre l’attenzione, diventare spettacolare o sconvolgente. Sensazionale. Tanto che persino l’originale significato fisiologico di sensazione, cioè percezione comune, è scivolato in ciò che in modo magnetico attrae su di sé la percezione. E cioè proprio il sensazionale, lo spettacolare che da caso limite diventa la norma. Siamo in una società eccitabile ed eccitata, per dirla con Christoph Türcke, professore di filosofia all’Accademia di Arti visive di Lipsia che al tema ha dedicato un’imponente analisi pubblicata da Bollati Boringhieri (La società eccitata. Filosofia della sensazione, pagine 352, 43 euro). La volontà di impressionare a tutti i costi con stimoli progressivamente più penetranti non è solo una deriva dell’informazione, della pubblicità o dell’industria culturale; in tutte le forme delle relazioni quotidiane, dove il risvolto mediatico è onnipresente, c’è la consapevolezza che chi non attrae su di sé l’attenzione altrui, chi è ignorato, è destinato a non esistere. Nella società tecnologica avanzata dell’essere è essere percepiti – in cui a ciascuno si impone di essere un ricetrasmittente e persino – «esser ci» diventa un incubo, una lotta per l’attenzione, dove il ci è quel un vortice di forza vitale collettiva che non tollera l’inattività, la non trasmissione, cioè il vuoto. Il grigiore di una vita di basso profilo e sottovoce. Ed ecco l’esistenza trasformarsi in una coazione frenetica al fare, a essere in onda, sollecitati da stimoli sempre più forti e a propria volta stimolanti. Niente di nuovo sotto il sole. Nel rivoluzionamento ipertecnologico – ritiene Türcke – non si possono non vedere i segni di una regressione all’arcaico. A quel mondo preistorico in cui i primi uomini reagivano al terrore degli animali feroci con i graffiti, una sorta di coazione a ripeterne l’immagine. Un meccanismo simile a quello che molto più tardi Freud associò alla nevrosi da trauma. Immortalati sulle pareti delle caverne, quelle fiere diventavano una presenza costante e controllabile. Del resto quei bombardamenti di stimoli violenti, quale doveva essere la vita preistorica, temprarono la corteccia cerebrale dell’homo sapiens, rendendo quell’amalgama di cellule nervose grigie, sede delle prestazioni mentali, uno scudo di protezione al cervello. Il primo anestetico dei sensi della storia umana.Esattamente ciò che succede, secondo il filosofo tedesco, in una modernità in cui irrequietezza e fermento si ingorgano al punto che la percezione, sotto la pressione di stimoli sempre più forti, vive stati prolungati di assuefazione. E, come per le droghe, necessita di stimoli sempre più scioccanti per tener desta la soglia di eccitabilità. Peccato che il contraccolpo sulle sensibilità, le identità e le esperienze personali sia devastante. «Ciascuno irradia qualcosa – spiega Türcke – benché i rumori del suo corpo siano così lievi, il suo respiro così flebile, il suo atteggiamento, la sua gestualità, la sua mimica così inappariscenti da risultare quasi impercettibili». Cosicché mentre nel gran bailamme le esperienze significative e autentiche si perdono o non arrivano al livello di percezione generale, più banalmente si fanno strada forme di ribellione sociali (dai tatuaggi al piercing alle tossicodipendenze fino alle avventure estreme della violenza e dell’odio senza movente) che hanno il sapore della rivolta all’indifferenza e all’assuefazione sensitiva. Consapevole che non si possa semplicemente invocare l’astinenza contro il diluvio audiovisivo, ormai inarrestabile, Türcke suggerisce la manovra alternativa: vaccinarsi con un dosaggio sapiente di capacità critica che agisca da freno. La consapevolezza, anche se in dosi omeopatiche, è un veleno che permette al flusso del mondo liquido di fronteggiarlo e di non esserne travolti.
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