venerdì 17 gennaio 2014
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Militärseelesorge, così la chiamano i tedeschi. Una parola meno complicata di quanto sembri: significa semplicemente «cura animarum indirizzata verso i militari», ed è quanto in tutti gli eserciti dei Paesi di tradizione cristiana fanno i cappellani. Si può legittimamente pensare che Francesco d’Assisi, quando nel 1219 salpò da Ancona diretto agli accampamenti crociati d’Oltremare, oltre che d’incontrare i musulmani avesse l’intenzione di predicare anche ai crociati. Che ne avevano del resto un gran bisogno.Già tre secoli dopo – dai tempi di Erasmo da Rotterdam autore della Querela Pacis, splendido manifesto di protesta contro la follìa della guerra che troppo spesso si tingeva di valori religiosi e morali – il moltiplicarsi dei conflitti tra europei, l’insorgere delle «guerre turche» e al tempo stesso l’avanzare del processo di secolarizzazione obbligavano gli «uomini di Dio» a pensare di più alla coscienza e all’anima dei combattenti.Vincenzo Lavenia, modernista dell’Università di Macerata, assiduo collaboratore di studiosi come John Tedeschi e Adriano Prosperi, pubblica ora un libro che veramente mancava nel panorama della storia della religiosità (e della guerra) moderna e che segna un punto fermo nel progredire degli studi sia sulla pietà cristiana, sia sul valore militare. Partendo da un esempio-prototipo, un testo portoghese di metà Cinquecento, e dal fenomeno delle cappellanie obbligatoriamente imposte da Carlo V ai suoi tercios, Lavenia traccia con mano sicura e con generosa erudizione la storia dello sviluppo dell’istituzione dei cappellani militari fra XVI e XVIII secolo passando attraverso momenti e figure fondamentali, quali i predicatori e trattatisti della Compagnia di Gesù e il pensiero di Giusto di Lipsia.Insieme con i religiosi che, in campo tanto cattolico quanto riformato, s’impegnarono nell’assistenza ai soldati, configurando un tipo umano e morale molto affine a quello del predicatore-missionario, nacque e si sviluppò una produzione di trattati e libretti illustrati (o di scritti a carattere diaristico oppure epistolare) che presenta ovvie ma anche significative e affascinanti affinità, soprattutto, con le artes moriendi. Si trattava di riconquistare alla fede un composito ceto professionale di gente che – come del resto l’intera società di quei due primi secoli della Modernità – si andava per altri versi fatalmente e irreversibilmente scristianizzando. D’altronde, quella povera ed empia carne da macello che andava alla guerra trascinata – come dice un personaggio del Don Chisciotte – dalla «triste povertà» (altro che la «bella vita militar» cantata da Mozart!), combatteva e moriva di solito sotto bandiere crociate e nel segno della fede, sia lottando contro i maledetti scismatici o contro gli infami papisti nelle guerre ugonotte o in quella «dei trent’Anni», sia immolandosi con tanto d’indulgenza plenaria contrastando giannizzeri e sipoys ottomani.Si può mai vivere da assassini, stupratori, ladri, e morire come santi? In fondo, tra XI e XII secolo, i poeti epici avevano sostenuto che già ai tempi di Carlomagno ciò era riuscito a gente come il paladino Rolando. Ma quelli erano davvero altri tempi. Tuttavia, i cappellani cattolici e riformati – che assistevano le anime, ma anche i corpi delle loro indocili e feroci pecorelle; e che non di rado morivano con loro e per loro – riuscivano spesso in un modo o nell’altro a consolare, a sostenere, ad alleviare, talvolta sul serio a convertire nel vero e pieno senso del termine. Si trattava di dare un senso alla morte pro rege, pro patria, pro aris et focis, anche quando alla radice c’erano, troppo sovente, solo la miseria, il vizio (specie quelli del gioco, del vino, delle prostitute), il bisogno, l’ignoranza, l’abiezione, l’incapacità di vivere d’onesto lavoro, l’abitudine a violenza e soperchieria. Eppure, in tutto ciò v’era (e continua ad esserci) qualcosa di sublime. Come nelle parole di quell’anonimo cappellano-diarista dell’imperialregio esercito di Francesco Giuseppe che, nel 1917, insegnava ai suoi Kaiserjäger che «vi è stato chiesto, per essere buoni cristiani, di non uccidere. Ma voi siete soldati: il vostro dovere è anche quello di dare e di ricevere la morte. Allora io nel nome del Cristo Figlio di Dio Vivo e Vero non vi chiedo di non uccidere, ma pretendo da voi qualcosa di molto più alto e difficile: di non odiare nemmeno quando combattete, di amare sinceramente il vostro nemico ch’è egli stesso vostro fratello anche nel momento in cui lo uccidete o egli vi uccide in battaglia».Vincenzo Rosito La partecipazione salvataTeologia politica e immagini della crisi Cittadella. Pagine 172. Euro 13,80
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