mercoledì 3 novembre 2021
Nella narrativa italiana recente si delinea un filone tra autobiografia e invenzione in cui gli scrittori esplorano le vite dei loro genitori. Spunto comune la necessità di affrontare una perdita
Cristian Gennari

Cristian Gennari - archivio

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Ci sarebbe da chiedersi perché in questa fase la narrativa italiana tanto spesso affronti il tema della genitorialità, della filiazione generazionale tra i figli e i loro padri e madri. Lo capiremo così come ora, a tentoni, capiamo quanto questo genere di confronto, trasposto in letteratura, coincida già di per sé stesso con una forma di racconto, si identifichi con una deriva di scrittura autobiografica, sempre tesa su un filo che lanciato anche piuttosto lontano, sempre arriva a legare indagine intima e invenzione romanzesca. «Non si scappa dalla colpa della successione », scrive Matteo Trevisani nel suo Libro del sangue (Blu Atlantide, pagine 219, euro 16,00), un romanzo/memoir capace di rendere narrativa e di finzione l’autobiografia, piegandola su una riflessione psico-genealogica. «Il tuo compito è quello di far assomigliare il tuo albero psichico a quello reale: deve esserne la riproduzione il più possibile fedele, ma è qui che accade la magia: l’albero diventa reale anche se lo inventi». A cavallo tra ricostruzione dettagliata delle figure dei genitori e dei punti di vista dei figli da un lato, e reinvenzione dei due fronti, quello filiale e quello genitoriale, dall’altro, la scrittura cerca e trova intensità nella dimensione famigliare. In qualità di discendenti immersi in una rielaborazione del lutto dei genitori lunga e articolata tanto da non sembrare avere fine, si ha l’impressione che gli scrittori trovino la loro voce in modo particolarmente flagrante sintonizzandola sulla loro storia di epigoni. Un “congedo dai genitori”, per dirla con Peter Handke, diluito e dilatato nel tempo della narrativa italiana tanto da cristallizzarne una scelta contenutistica e di prospettiva la cui ricorrenza non può non colpire. Un “fare i conti” di carattere psicoanalitico che virando verso il romanzo acquisisce giocoforza spes- sore letterario? O al contrario, una cornice “psico-genealogica” obbligata, entro la quale altre eventuali tonalità e potenzialità dell’immaginazione si trovano in qualche maniera costrette, incanalate, ma anche limitate? Certo è che da un lato l’essere figli, l’assumerne tutta la responsabilità, dall’altro il diventare scrittori (tentare, quantomeno) sono percorsi identitari che di frequente vengono ipotizzati percorrere strade parallele. In Alfabeto Ninadi Nadia Dalle Vedove (ItaloSvevo, pagine 221, euro 17,00), alla progressiva afasia di una madre affetta da Alzheimer, l’autrice contrappone il proprio amore per la letteratura e la scrittura: un amore inteso come percorso auto-rigenerativo, la cui intensità e il cui potere trasformativo compensano il dolore causato dall’altro amore, quella per la genitrice che pian piano se ne va a proporzione dello svanire delle sue facoltà intellettuali. Di fronte all’enigma (lessicale anzitutto) di una madre la cui mente è salpata verso nuove, non comprensibili sponde, si è tutti “analfabeti”, scrive Dalle Vedove, e ricostruire la genesi dell’amore per la parola scritta, per i libri, le librerie e tutto quanto racconta l’approdo alla scrittura, si delinea per lei come unico terreno sicuro su cui poggiare il passo tremante e accorato della sua angoscia di figlia. Scrivere per congedarsi e per rinascere: di nuovo in Libro del sangue, Trevisani trova come emanciparsi dal suo “destino genealogico” affidando alla dimensione del lutto e della sua elaborazione la corposità di un’effettiva autorevolezza della narrazione. La domanda chiave del suo libro, «hai mai pensato che solo dopo morti abbiamo davvero una storia?» trova come contrappeso teorico-letterario l’idea per cui è raccontando vite realmente vissute (avvalorate dal fatto di essere vite delle quali, da narratori, si è figli o discendenti) che la parola si fa storia, e la storia, parola. La letteratura esisterebbe insomma come documentazione romanzesca di vicende la cui sottesa – o esplicitata – significanza genealogica offra di per sé materia di racconto. Nel suo bellissimo Storia aperta (Bompiani, pagine 661, euro 22,00), Davide Orecchio porta il ragionamento ancora più in là: la ricostruzione della vita del padre, delle sue traversie esistenziali – che sono anche politiche, diacronicamente spostandosi dal fascismo al comunismo, dalla militanza alla scrittura, dalle scelte di vita alle prese di posizione letterarie – si risolve per Orecchio in uno stile che dalla seconda persona glissa verso la prima. «Smetteremo di leggere con la voce alta, ridurremo le nostre voci a una sola, questa voce sarà solo la mia, sarò solo io a imparare la storia, solo io a raccontarla». Chissà che proprio in questo progressivo avvicinarsi alla voce di un genitore, sino a impadronirsene, la traiettoria di scrittura divenga la più interessante e feconda. E chissà, in seguito a tanti racconti su padri e madri, a cotanta narrativa psicogenealogica, che la letteratura riesca ad aprirsi ad altro, affrontare altri valichi, altri nodi, altre intersezioni. Dopo avere scandagliato e narrato i commiati, affrontare infine un presente e un futuro in cui non si sia più narratori/figli, e nemmeno genitori: piuttosto orfani e autonomi individui. Orfano è lo scrittore, quello la cui scrittura sia la sua casa e la sua famiglia. Ricominciare a crederlo, ad attuarlo e sentirlo, schiuderebbe allora molte prose a nuovi cominciamenti, arricchenti per tutti, scrittori e lettori.

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