sabato 12 agosto 2023
Cosa succede nel rapporto con la Chiesa quando un credente o una credente esprime pubblicamente dubbi e posizioni non allineate con il Magistero? La sfida è evitare l'incomunicabilità
Michela Murgia

Michela Murgia - Fotogramma

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Cosa succede nel rapporto con la Chiesa quando un credente o una credente esprime pubblicamente dubbi e posizioni non allineate con il Magistero? È una delle domande che pone la morte di Michela Murgia, scrittrice e attivista per i diritti, ma prima ancora, per un larghissimo tratto di vita, “militante” e “praticante”, responsabile a livello regionale dei giovani dell’Azione Cattolica della Sardegna, collaboratrice di importanti eventi nazionali dell’associazione come il pellegrinaggio di Loreto del 2004, uno degli ultimi atti pubblici di san Giovanni Paolo II. Una giovane credente dell’Italia meno ricca che, immersa in un oceano di precarietà, ha messo nel bagaglio anche un diploma in Teologia e un’esperienza in cattedra come insegnante di religione. Un vero rapporto tra madre e figlia, mediato dalla comunità, dall’associazionismo e da figure significative di sacerdoti, religiose e laici, che registra un distanziamento – non una cesura, però – non quando viene meno la radice, la fede in Dio, ma quando a ostacolarsi sono i rami, certo non irrilevanti, delle idee e della loro espressione pubblica.

La risposta alla domanda sembra purtroppo già scritta e si ripete in tanti casi analoghi: l’incomunicabilità. Da un lato la Chiesa “istituzionale” tende a prendere le distanze, almeno pubblicamente, da un figlio o una figlia che può “imbarazzare”. Scemano fino a cessare gli inviti a convegni e seminari (nel caso di Michela Murgia, ha fatto eccezione il vivace ambiente delle teologhe italiane). Nessuno o minimo spazio nell’ambito “Pantheon” delle personalità del presente che assumono una notorietà partendo da una formazione cristiana. Rarissimi ed episodici momenti di confronto pubblico, se non a mezzo stampa o via social, sui temi che creano distanze insormontabili (reali o apparenti). L’obiettivo pare essere scansare l’amaro calice dell’accusa: “Ecco, invitano a fare propaganda a idee contro la morale cristiana… Ah, e sarebbe anche una credente… Bravi, così bene l’avete formata?”.

D’altro canto, però, qualcosa di simmetrico accade di solito nel figlio o nella figlia che dubita, chiede, provoca anche e infine fissa la propria bandiera in un campo diverso – ma non contrapposto – da quello di partenza. La comunità che è stata compagnia in anni importanti per la formazione della personalità si dirada e viene via via sostituita da altre comunità, altre reti, nuove connessioni, diversi circuiti e canali espressivi. Un processo che può avvenire in maniera naturale, senza troppi ripensamenti, vissuto interiormente come un passaggio “evolutivo”. O che può avvenire in maniera sofferta, controversa, con sentimenti di delusione e persino di rivalsa.

E tuttavia, nel caso di Michela Murgia ci sono ulteriori elementi che vanno oltre lo stereotipo del rapporto tra Chiesa istituzionale e credenti “non allineati”. La ricerca teologica e intellettuale della scrittrice, mai cessata, non è “eretica”, si è svolta semmai in spazi e modalità non formali che strutturalmente fanno fatica a essere riconosciuti nei luoghi-chiave della Chiesa, se non ex-post. C'è una resistenza sistemica in cui incorre chi invoca la libertà di credere e la possibilità di credere dentro una ricerca libera. Nell'ultima intervista a “Vanity Fair” la scrittrice riafferma di sentirsi parte della comunità ecclesiale: «La Chiesa – dice – deve fare ancora passi da gigante ma io posso starci dentro e fare in modo che magari quei passi possano andare più veloci». Per quanto possa sembrare controversa, è sino alla fine la rivendicazione e il desiderio di un'appartenenza e anche il riconoscimento di uno spazio di incontro sempre possibile. Inoltre, nel caso di Michela Murgia, la comunità delle origini non si è diradata del tutto ma si è spontaneamente trasformata in “semplice” luogo dell’amicizia e della presenza, sino alla penultima ora.

Il momento della morte sembra spingere a ricucire le ferite, a riconoscere la comune radice, a mettere da parte i dissensi e anzi a leggerli, dopo anni di diffidenza, sotto una luce diversa. Ma forse, anzi sicuramente, si potrebbe iniziare prima con l’esercizio di una lettura e di un metodo diverso in relazione al dissenso. Si potrebbe iniziare prima, non interrompendo il dialogo ai primi segni di contrasto. Si potrebbe iniziare prima, continuando a riconoscere ciò che di essenziale unisce. Si potrebbe iniziare prima, con il coraggio di affrontare temi complessi senza la paura di perdere la propria identità, da una parte e dall’altra. Si potrebbe iniziare prima, impegnandosi a restare cocciutamente madre e figli.



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