venerdì 3 settembre 2021
Un saggio di Oliva ricostruisce la permanenza dello scrittore in città: in quel clima culturale, aperto al naturalismo francese, imparò a guardare con occhi diversi la sua Sicilia
Una immagine di Giovanni Verga

Una immagine di Giovanni Verga - .

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A Giovanni Verga capitò qualcosa di simile a quanto era capitato a Giuseppe Gioachino Belli. Questi scoprì la sua Roma, vitale e plebea, diversa da quella ingessata della tradizione classicista, quando a Milano venne a contatto con la cultura romantica, che finalmente guardava al popolo; quello scoprì la sua Sicilia quando ne fu fuori, a Firenze e a Milano, a contatto con una cultura aperta al vento del naturalismo che soffiava dalla Francia, e si accorse che nell’isola c’era una realtà vergine, fatta di poveri pescatori e di artigiani arricchiti, di ’Ntoni Malavoglia e di mastri-don Gesualdo, assai diversa da quella idillica celebrata da Teocrito e da Meli. Nella società globalizzata si stenta a capire l’importanza della variegata geografia culturale che Carlo Dionisotti additò precocemente per l’Italia, Paese dalle molte capitali. Non stupisce che questo saggio sul Verga milanese venga da Gianni Oliva, uno studioso di lungo corso tanto della geostoria della nostra letteratura quanto del Verismo.

Verga, protagonista di fervide discussioni in passato quando era caduta l’idea dell’intellettuale progressista ed era prevalsa l’immagine di uno scrittore cinico, nichilista, intriso di biologismo positivista, è da tempo trascurato da lettori e critici. Una ragione è che da molti anni è scesa l’attenzione per la Sicilia come caso letterario, in buona parte monopolizzato da studiosi isolani restii a estendere l’orizzonte oltre lo Stretto. La Sicilia rurale dipinta da Verga nelle novelle di Vita dei campi e nei Malavoglia, il romanzo sui poveri pescatori di Aci Trezza, dista anni luce dalla società odierna e dunque dalla sensibilità delle giovani generazioni; di qui il diffuso pregiudizio di Verga come un autore improponibile ai lettori moderni. Luigi Capuana ha nel suo arco le frecce dell’inquietudine e della psiche turbata del mondo femminile, materia tuttora attrattiva: perciò viene spesso collocato tra gli apripista della modernità letteraria. Vero, e tuttavia anche Verga, specialmente nelle ultime raccolte di novelle, merita quel titolo di apripista che prima gli si riconosceva solo come pioniere della rivoluzione tematica ed espressiva avviata con le prime novelle e il ciclo romanzesco dei Vinti: interrotto guarda caso dopo l’uscita del Piacere di D’Annunzio (1889), che occupò lo spazio che Verga progettava di esplorare, passando dall’affresco delle classi umili a quello degli uomini “di lusso” e adattando man mano lo stile alla gerarchia sociale indagata volta per volta.

Non a caso Gianni Oliva scriveva in un suo saggio che Mastrodon Gesualdo viene a morire in casa di Andrea Sperelli. Di fatto, nei cruciali anni Ottanta dell’Ottocento si rinnova l’idea stessa di narrativa proprio nelle vivaci discussioni milanesi tenute al Caffè Biffi o al Cova da Verga e da un gruppo di amici, tra i quali Capuana, Cameroni, Boito, Gualdo. Oliva – in Verga per le vie di Milano La solitudine del flâneur (Bruno Mondadori Pagine 160. Euro 16,00) – ricostruisce quell’ambiente con dovizia di documenti, focalizzando un Verga solitario, taciturno flâneur che osserva con curiosità la vita della grande Milano, ormai sua seconda patria. Sottolinea la cinica malinconia del gentiluomo misterioso che attraversa la città nel silenzio del primo pomeriggio o della notte (di qui il sottotitolo) e rappresenta la città in espansione, popolosa e chiassosa, i cui tentacoli catturano ormai anche gli ultimi spazi di verde.

Piazza Scala a Milano nel 1895

Piazza Scala a Milano nel 1895 - .

Verga ripensa alla Sicilia lontana ma nel frattempo osserva la periferia più degradata e nascosta della Milano trionfale, sede dell’Esposizione Universale nel 1881, festosa e piena di luce. Le novelle di Per le vie (1883) restituiscono un Verga affascinato dalla città dinamica ma al tempo stesso deluso dall’effervescenza e dal lusso che fa dimenticare i deboli e gli emarginati, “vinti” della società urbana come lo erano quelli della società rurale. I luoghi di Milano sono quelli in cui si odono le voci dell’osteria, il lamento del vetturino in piazza della Scala: «tutto sta nei denari a questo mondo». È il mondo degli amori tra cameriere e soldati, delle buie portinerie, della prostituzione e della sofferenza che contrasta con la festa dei veglioni, le luci dei teatri o con il chiacchiericcio ipocrita dei salotti mondani.

Tutto questo, scrive lo studioso, trasforma «il soggiorno quasi in un esilio, sia pure non forzato». Nella città tentacolare Verga, spaesato, mette a nudo la sua fragilità di provinciale, incapace di adattarsi al turbinio spersonalizzante della metropoli. Il giovane Verga si rende «protagonista di un’erranza esistenziale» che nega lo «spazio della felicità». Sintesi esemplare del clima di solitudine che si respira nel libro di Verga è il racconto finale, in cui Oliva commenta finemente il motivo delle scarpe del suicida abbandonate nel campo, solo residuo di una vita anonima e desolata.

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