mercoledì 18 maggio 2011
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Anita Albus, saggista, scrittrice ed illustratrice monacense, è personalità del tutto ignota al lettore italiano. In Germania non le sono certo mancati importanti riconoscimenti e con l’appena pubblicato Alla luce della tenebra. Su Proust (S. Fischer 2011, pagine 222, euro 38,00) ha prodotto uno dei libri più sorprendenti su Proust. Si tratta infatti di un testo disseminato di novità interpretative e capace di suggerire una serie di relazioni fino ad ora non notate utili ad aprire una nuova prospettiva sul paesaggio consueto dell’opera proustiana. La Albus affronta con sorprendente sicurezza Alla ricerca del tempo perduto partendo dalle proprie attitudini e passioni (per gli uccelli, per gli insetti, per le piante) e insegna al lettore in quale misura il metodo di Proust sia in relazione con l’osservazione della natura e con il ricorso ad una tradizione medioevale. È noto il culto del francese per lo storico dell’arte ed artista John Ruskin, che tradusse e di cui apprezzò in particolare gli studi sul gotico: fu attraverso i suoi occhi che scoprì le cattedrali della Normandia, di cui sarebbe poi divenuto in Francia fiero apologeta. La Albus da parte sua, oltre ad aver individuato quale cardine segreto del proprio studio una frase di Ruskin («Ogni grande arte è un canto di gloria»), dedica l’intero primo capitolo del suo libro alle arringhe enfatiche dello scrittore francese a favore delle chiese intese quali luoghi di culto. Un approccio simile alla Recherche non è nuovo (vedi Adorno: «Proust va letto pensando alle cattedrali») e tuttavia l’analisi paziente di dettagli apparentemente marginali, insieme alla messa in luce di relazioni nascoste, conduce la Albus all’architettura di cattedrali del cristianesimo medievale, dove il bello non è mai autonomo ed anche l’esperienza sensuale appartiene direttamente ad un contesto di grazia. E Proust, sostiene la Albus, non era per nulla alieno a quest’immagine del mondo e a ciò che fosse "ecclesiale".In un significativo passaggio all’inizio de I prigionieri, nella Recherche, viene descritta la babele delle "grida di Parigi". Al narratore che l’ascolta, questo "concerto" ricorda le antiche chiese, tanto che la cadenza e la ripetizione delle urla finiscono con l’apparirgli liturgiche. Come tutte le Wunderkammer, il romanzo proustiano è una scuola di percezione, la cui principale strategia di riconoscimento consiste nell’inatteso accostarsi ed intersecarsi di fenomeni. Lo stesso Nabokov ha scritto che «l’intera opera di Proust è un’unica estesa metafora ruotante attorno alle parole come se». Il ricorso costante al come se, al suo potere, è a servizio di una verità più alta e ciò che la Albus raccomanda al lettore è di vederne in Proust una ancor più alta di quella cui può giungere la metafora: si tratta dalla verità della religione. Secondo la scrittrice infatti (cosa che certo provocherà scandalo nella communis opinio dei critici proustiani) è certo che il francese sia stato un uomo di fede. L’Altro cui ogni metafora dello scrittore di Auteil così sorprendentemente dischiude secondo la Albus è certamente legato alla sfera della devozione medievale, anche se resta praticamente impossibile dare una risposta alla domanda circa l’adesione o meno di Proust alla "forma religiosa". Che peso e significato dare, per esempio, a quanto scrive il francese stesso a proposito della sua opera, quando dice, in una lettera del febbraio 1914 a Jacques Rivière, che il suo romanzo va inteso come «un’opera dogmatica al servizio della "Verità"»? Oppure, cosa voleva dire Proust quando, prossimo alla morte, scrisse al cattolico Francis Jammes che avrebbe voluto pregare san Giuseppe affinché il morire gli fosse reso più lieve? Sono queste l’evidenza di una profonda devozione? O si tratta solo di metafore? È noto che lo scrittore non ha ricevuto l’estrema unzione e tuttavia è altrettanto risaputo che aveva chiesto che sul letto di morte gli fosse messo tra le mani un rosario (ma Celeste se ne dimenticò). Non un rosario qualsiasi, piuttosto l’ennesimo oggetto in grado di suscitare ricordi: avrebbe dovuto essere quello che gli aveva donato la sarcastica Lucie Faure. Che significato aveva per lui quell’oggetto? E, tornando alle "sue" cattedrali, che cosa significano le da lui tanto amate chiese presenti nella Recherche? Nessuno prima della Albus aveva riconosciuto tra i materiali e gli spogli usati da Proust per costruire il suo romanzo-cattedrale così tanti frammenti tratti da Linné, da Physiologus, dai ritratti d’insetti di Fabres e dalla speculazione scolastica.
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