mercoledì 4 aprile 2018
Un saggio del filosofo propone di leggere “I Promessi Sposi” in chiave etica e a leggere l'invocazione della Provvidenza come una chiamata all'azione, «a fare quel che è da fare»
Alessandro Manzoni ritratto da Francesco Hayez

Alessandro Manzoni ritratto da Francesco Hayez

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La Provvidenza c’è, ma per arrivare a riconoscerla bisogna attraversare i territori della sopraffazione e della violenza, dell’ingiustizia e, in una parola, del male. Che per sua natura «ammala», come osserva il filosofo Salvatore Natoli in uno dei passaggi più illuminanti di un saggio incisivo fin dal titolo: L’animo degli offesi e il contagio del male (il Saggiatore, pagine 96, euro 11,00).

Come spiega l’italianista Mario Barenghi nella prefazione, si tratta della riproposta – in forma riveduta e ampliata – della lectio magistralis tenuta dallo stesso Natoli nell’ottobre del 2015 per il progetto “Accidenti, Manzoni!”, che di anno in anno porta all’Università di Milano Bicocca studiosi impegnati nell’interpretazione di una singola citazione tratta dai Promessi Sposi. Quella scelta da Natoli proviene dal secondo capitolo del romanzo e si riferisce a Renzo che, di ritorno dal colloquio con don Abbondio, medita vendetta, e vendetta sanguinosa, contro don Rodrigo. Perché, commenta Manzoni, «i provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi». Frase lapidaria, della quale si ricorderà Primo Levi in un brano non meno decisivo di I sommersi e i salvati e attorno alla quale Natoli costruisce la sua rilettura del libro su cui si fonda l’identità nazionale, e non soltanto linguistica, degli italiani.

Il male esiste, dunque, e spadroneggia. I Promessi Sposi ne danno conto a più riprese, dal sopruso inizialmente inflitto a Renzo e Lucia fino alla sollevazione delle folle nella rivolta di Milano, dal dilagare della peste al tenebroso interludio della Monaca di Monza, nel quale Natoli individua la presenza di un «potere costrittivo» capace di «rendere la vittima colpevole mettendola nelle occasioni per esserlo»: una privazione della libertà che predispone alla malvagità, tanto da esserne la causa. È esattamente questa la «zona grigia» che sarà poi esplorata da Levi e dalla quale si esce solamente attendendosi al precetto fondamentale della morale manzoniana, un «fare quello che è da fare» che è adesione alla realtà e, nello stesso tempo, volontà di trasformarla. Altrimenti accade ciò di cui Manzoni dà testimonianza nelle pagine davvero terribili della Storia della Colonna Infame, e cioè un pervertimento della giustizia che porta alla cancellazione dell’altro.

Oggi non va diversamente, insiste Natoli: gli scafisti sono i nuovi monatti, i migranti che rischiano la vita nel Mediterraneo sono «un volgo disperso che nome non ha», perché perdere il proprio nome, e ancor più esserne privati, è il primo passo che porta all’annientamento. Sono verità ben note ai filosofi, queste, ma in effetti appartengono già a quel «sapere del popolo» che per Natoli sta alla base dell’intera costruzione del romanzo. L’invocazione della Provvidenza, in questo senso, non sottintende affatto un invito alla rassegnazione, ma è al contrario una chiamata all’azione, un benefico «imprevisto » che rovescia i rapporti di forza.

«Per fronteggiare il male bisogna praticare il bene» è, di nuovo, la sintesi della «saggezza dei semplici» alla quale l’altrimenti furibondo Renzo sceglie di attenersi, superando così la reazione istintiva che lo porterebbe a sopprimere il persecutore e avviandosi sul lungo cammino di interiorizzazione e riflessione che, in una delle scene più memorabili del libro, gli permetterà di perdonare il moribondo don Rodrigo.

Di questo percorso, del resto, rimangono diverse tracce anche nella cospicua raccolta di Lettere inedite o disperse che grazie a Luca Danzi vengono a integrare il già vasto epistolario manzoniano (il volume fa parte della collana di “Testi italiani commentati” di Mimesis, pagine XXII+146, euro 16,00). A una settantina di missive apparse nel frattempo in altra sede – tra le quali spicca la corrispondenza tra Manzoni e il figlio Pier Luigi di cui Mirko Volpi ha fornito un paio di anni fa un’edizione esemplare – se ne aggiungono qui ventuno finora sconosciute. Una in particolare, risalente al 1848, rivela l’interessamento di Manzoni per la dote della quale pare essere sprovvista la figlia di uno dei suoi lavoranti di Brusuglio. Poche righe, certo, che però denotano l’attenzione a questa sorella di Lucia della quale, come per contrappasso, non conosciamo il nome. Ma sappiamo che per lei, «per la figlia di Pietro Giussani», il grande scrittore ha cercato di fare quello che era da fare.


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