Così l’Abruzzo donò i pastori al presepe
Storia, musica e arte nei presepi abruzzesi: una summa documentata delle testimonianze della tradizione natalizia regionale

È stato da poco edito un libro tanto scorrevole quanto documentato, che rappresenta quasi una “summa” di conoscenze in tema di presepe, con particolare riferimento a quello abruzzese (Il Viandante, pagine 248, euro 23,50 corredato da circa 40 fotografie). È infatti in Abruzzo che si rinvengono le più significative testimonianze di questa tradizionale forma d’arte e di devozione popolare. Il libro non ha un titolo unico in quanto ripartito in tre sezioni. Autore della prima, che contiene la storia del Presepe Abruzzese, è un serissimo storico di Chieti, Enrico Di Carlo, che in esso trasferisce le acquisizioni raggiunte in anni di amoroso studio della materia. Il volume ospita poi una seconda partizione di argomento musicale e di composizioni poetiche, Abbruzze presepie d’Italie, con un Oratorio di Natale in dialetto abruzzese del musicologo Mario Canci. La terza, più specialistica, è a firma di Giacomo de Crecchio e tratta del cosiddetto Presepe Antinori, commissionato a fine 1600 dalla ricca famiglia aquilana degli Antinori. Introduce al volume una commossa prefazione del cardinale Angelo Comastri.
Sulla conferma della convenzionale origine del presepe, ad opera di san Francesco d’Assisi, Enrico Di Carlo si attiene al dato tradizionale: avviene nell’anno del Signore 1223, a Greccio, nell’attuale provincia di Rieti; l’Autore ricorda peraltro che le attuali ripartizioni regionali (Lazio per Greccio, Abruzzo col Molise per le successive attestazioni più cospicue) non avessero senso otto secoli fa, per essere ricompresi l’odierno Abruzzo e il Reatino nella cosiddetta “Terra di lavoro”. Chiarito ciò, Di Carlo fa nella sua trattazione un deciso passo verso una regione quanto mai “francescana” come l’Abruzzo, più volte percorsa dal Poverello d’Assisi ospite dei conti della Marsica e luogo di nascita del suo primo biografo, Tommaso da Celano. Da dove si ricava questo rapido approdare in Abruzzo del grecciano presepe?
Si ricava da una “fondatissima tradizione” ripresa nel 1963 dallo studioso francescano padre Donatangelo Lupinetti, che parla di un secondo presepe dopo Greccio, nel 1225 a Penne, cittadina attualmente situata in provincia di Pescara e per secoli primaria sede di diocesi (prima del trasferimento nella città adriatica, con la costituzione nel 1949 dell’attuale arcidiocesi metropolitana di Penne-Pescara). Nel 1225 viene allestito nella cittadina un presepe con un “regista” di primo piano nel mondo francescano del tempo: il beato Agostino da Assisi, tra i primissimi seguaci del santo – ancora vivo, Francesco, in quel 1225 - sebbene malato e immobilizzato negli ultimi mesi della sua esistenza, che sarebbe finita l’anno dopo. Ma l’appassionata ricerca di Di Carlo non si ferma al tralatizio dato storico, con l’avvertire peraltro dell’assenza di fonti documentali sulla reale presenza di Agostino d’Assisi a Penne. Prende, piuttosto, una strada maestra verso ciò che gli interessa trattare e che conduce dritta al cuore di chi ama il presepe. La strada ruota intorno alla domanda: perché in Abruzzo si insedia, con particolare fioritura, la devozionale tradizione popolare del presepe? La risposta è di una sconcertante, lirica immediatezza: perché l’Abruzzo è “presepiale” di per sé. Terra associata per antonomasia ai pastori. Terra di alture e valli, come la Giudea di 2000 anni fa. Terra di grandi presenze religiose. Terra di cuori, da infinite generazioni, aperti ad accogliere il Verbo fatto carne, fondamento della fede cristiana.

Ad accorgersi della naturale… “presepialità” ante litteram dell’Abruzzo sono state nei secoli le menti più colte ed elevate, come Francesco Petrarca – nel XIV secolo a contatto con gli umanisti di Sulmona – che chiama l’Abruzzo “domus Christi” appunto per la sua conformazione orografica, per essere punteggiata sulla Maiella di luoghi sacri, anche giovanneamente eremitici, e per la sua tradizione pastorale. Sul punto si sarebbero poi raccolte moltissime altre testimonianze nei secoli, fino alla contemporaneità con Ignazio Silone e con Mario Pomilio.
A questo punto il saggio di Di Carlo si fa più tecnico, scendendo ad analizzare le varie forme di presepe abruzzese, tanto quelle più conosciute dei presepi “viventi”, cioè di rappresentazioni con presenze umane (il più noto è quello di Rivisondoli in provincia dell’Aquila), sia quelle con realizzazione di manufatti: statuine, figurette, manichini fissi o snodabili e come si chiamano nell’Abruzzo centrale, figure dette “pasquarielli” - sebbene nulla vi sia di più natalizio di esse. E poi il “set” – la immaginaria Palestina del tempo - con scenari che sono a volte piccoli capolavori fatti di terra, muschio, carta e cartone, lucine, frammenti di specchi e fili d’acqua corrente nelle realizzazioni più curate. Legno, cartapesta, panno, stoffa, argilla ma anche ceramica e porcellana ispirano centinaia di presepi abruzzesi, a volte preziosi come quelli commissionati da famiglie patrizie a famosi artigiani napoletani, altre volte umilissimi, creati con materia povera da artigiani locali dei quali si è perso il nome. Poi ci sono i presepi ritrovati. Decine di figure riemergono ogni tanto da polverose casse, conservate in soffitte o in cantine di abitazioni private, oppure di chiese o conventi, in cattivo stato per l’azione del tempo e dei tarli sul legno o sulla cartapesta, a rovinare tutti quei poveri personaggi, un tempo gioia per gli occhi, sepolti da chissà quanto, lì.
E qui il presepe esprime un’altra sua valenza, la veicolazione, attraverso le figure, di un – fantasioso, diacronico, laico e a tratti pagano - immaginario collettivo. Il “set” di contorno comincia a prevalere sulla capanna della natività. La fagocita, in qualche modo, senza voler essere blasfemi. Il paesaggio si popola di personaggi che nulla hanno di evangelico: il rubizzo oste col fiasco in mano, la contadina con le papere, l’azzeccagarbugli con gli occhiali, il soldato romano, la nobildonna con fili dorati sulle svolazzanti vesti di panno, lo zampognaro e il pifferaio, la garrula pettegola che con la mano si nasconde la bocca maldicente; e, scesi dai cammelli in ricche vesti, i Re Magi, coi cofanetti - regali in ogni senso. Forse qualche traccia evangelica conservano la samaritana portatrice d’acqua e il pastore con la pecorella smarrita sulle spalle: ma non è meraviglioso come il profano, o meglio la profonda sensibilità religiosa popolare, riescano ad attirare il sacro in questo vissuto quotidiano?
L’Abruzzo è di per sé un presepe ecco perché è diventato terra d’elezione di quest’antica prassi devozionale, spiega Di Carlo. E nei lettori serpeggerà forse un’ultima suggestione, non affrontata nel saggio, ma generata dall’essere così ben presentate, in esso, natività e religiosità del volgo: chissà se nel 1223 del primo presepe a Greccio (e poi nel 1225 di quello a Penne) siano stati davvero “gli inventori” san Francesco e il beato Agostino d’Assisi; o non piuttosto i “riassuntori”, di una preesistente prassi di devozione popolare da parte degli umili, degli homines illitterati, del popolo; se cioè non siano stati, il santo e il beato, che i meri “codificatori”, nelle attuali forme giunte a noi, della prassi stessa, a partire dalla canonica introduzione del bue e dell’asinello, per recuperare in ambito di “presepe regolato” forme che potevano prendere altre direzioni. Chissà.
Certamente la religiosità popolare si sposa con l’Abruzzo, soprattutto a causa dei pastori che hanno un ruolo primario nel Vangelo e che hanno fatto la storia di questa regione. Analfabeti e profetici, “odorosi” di gregge – secondo la espressione di papa Francesco, come i pastori devono essere - ma anche di angelici sentori. Primi ad essere attraversati dallo Spirito di rivelazione della raggiunta pienezza dei tempi; primi ad essere posseduti da un’incontenibile gioia ultraterrena, che li fa correre giù dai monti verso l’Emanuele, il Dio-con-noi, al suo apparire nel mondo.
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