mercoledì 22 gennaio 2014
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Perché Don Matteo, che su Raiuno riappare dal 2000 con successo incrollabile, mantenuto anche in questa nona edizione, riesce ad attrarre e a convincere, con un consenso trasversale che rivela quanto desiderio di serenità ci sia nello spettatore medio? Perché la sua figura – che si apparenta ai canoni della fiction tv, in cui i personaggi dominanti in senso positivo sono medici, investigatori e religiosi – ha in sé un messaggio in cui si riconoscono i fondamenti del bene. E se non sempre i media, variamente impostati, hanno per la figura del prete l’opportuna considerazione, per circostanze amare testimoniate dalla cronaca, in televisione il prete desta sempre attenzione: sia quando è nell’esercizio della sua funzione di guida e soccorso, sia quando si prodiga in investigazioni che nell’ambito della parrocchia rivelano la presenza del male e i suoi effetti. Don Matteo, che ora si è spostato da Gubbio a Spoleto, ma è sempre circondato dai suoi con variegata presenza di personaggi amati dal pubblico, interviene quando la cosiddetta cronaca nera fa crollare la serenità del luogo: e si misura con i fatti in razionale lucidità e pacata fermezza, indirizzando la sua indagine alla difesa del bene e degli innocenti.Più comunicativo, il prete sorridente, del suo collega inglese, Padre Brown, prete cattolico in ambito protestante nato dalla fantasia di Chesterton e più volte portato sullo schermo. Ne abbiamo visto recentemente un esempio nella serie inglese proposta da Diva-Universal Sky, in cui Padre Brown, molto britannico, non assomiglia affatto al suo predecessore italiano Renato Rascel, che nel 1970 portò in tv il personaggio con un pubblico contato in venti milioni di presenze. Razionalità e ironia, fede ferma e capacità di comprensione: la figura del prete diventa una sorta di modello rassicurante, che di fronte alle manifestazioni del male oppone la capacità di consolare e guidare.Dalla cronaca nera alla fiction, dai telefilm alle presenze attive – come non citare la costante presenza de Le frontiere dello spirito nelle domeniche mattina di Canale 5, iniziato nel 1984 dal "nostro" don Claudio Sorgi e continuato dal 1988 dal cardinal Gianfranco Ravasi – il prete rappresenta, nelle sue varie possibilità di intervento, l’attenzione alla vita spirituale, unita alla presenza di per sé simbolica della sua attività pratica. Il che contrasta, va detto, con certe produzioni, magari anche ben realizzate sul piano tecnico, in cui la figura del prete, secondo una voga di trasgressione assai pericolosa, si unisce a fenomeni cosiddetti paranormali e ne diventa interprete e diffusore. La seconda serie de Il tredicesimo apostolo andata in onda lunedì sera, è esempio davvero esecrabile di quanto certe fantasie possano esser pesantemente insultanti e fuorvianti. La figura del prete dotato di "arcani poteri", che agisce nell’ambito di una misteriosa "Congregazione" di sacerdoti e cardinali dedita all’occultismo, è resa con sufficiente efficacia, tale da turbare, per gli effetti speciali di cui la storia è costellata, chi è fragile e in crisi. Non vale sostenere che l’esempio della tv non può turbare e indirizzare al pericolo chi le segua (significherebbe negare quella stessa capacità di convincimento su cui si basa la tv per la sua produzione, la pubblicità). Il povero don Gabriel, intrappolato in storie improbabili di guaritori e di cosiddetti miracoli, fra suore agitate da conturbanti tensioni e una inevitabile storia d’amore, non fa un buon servizio al suo personaggio, che Claudio Gioè interpreta con evidente disagio: e non lo fa neppure a chi sia facile preda, per debolezza o dolore, di suggestioni crudeli. Un recente e amaro fatto di cronaca, di cui la tv si è fatta interprete, dimostra quanto sia facile che la disperazione conduca a impossibili speranze.
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