sabato 10 settembre 2022
A colloquio con lo scrittore che nel suo ultimo libro propone un viaggio nel legame vitale fra scrittura e profondità delle relazioni umane: «i social illudono, i classici no»
Lo scrittore Antonio Prete

Lo scrittore Antonio Prete - Giorgio Boato

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«Il Covid ha imposto violentemente la lontananza, quindi ha impedito una relazione immaginaria, fantastica con il lontano. Può aver permesso in alcuni momenti di sviluppare l’immaginazione: mangiare insieme a distanza, festeggiare a distanza, tutte forme in cui la lontananza viene costruita, attraversata. Per altri versi ha influito pesantemente proprio sul modo di rappresentare il lontano perché lo ha delegato solo al visivo. Ha inferto una ferita molto forte all’equilibrio delle rappresentazioni umane». Antonio Prete, docente emerito di Letteratura comparata all’Università di Siena, riflette da anni sul tema della lontananza, sul quale ha scritto nel 2008 il Trattato sulla lontananza (Bollati Boringhieri). Ora lo studioso - uno dei fondatori della comparatistica italiana con Remo Ceserani, Mario Lavagetto e Franco Moretti - prosegue la sua indagine con Carte d’amore (sempre per Bollati Boringhieri), che ha presentato ieri al Festivaletteratura di Mantova. Un excursus vertiginoso nella letteratura e nell’arte: dalla Bibbia ai classici, all’amore cortese del Medioevo, al petrarchismo, fino alla contemporaneità passando per l’amato Leopardi. Così come il san Francesco della Laus creaturarum.

Il distanziamento fisico che impatto ha avuto sulle relazioni?

Può aver creato veri e propri disturbi, ma è importante vedere come lo si è vissuto. Letteratura e arti danno una visione positiva della lontananza, come linea di elaborazione del pensiero dell’alterità e dell’altrove. L’immaginazione è sollecitata a costruirseli, ad attraversarli in modo attivo. La tecnica oggi dice: prendo il lontano e lo porto qui sullo schermo del pc, sul display del tablet o del cellulare.

Al centro del suo libro ci sono figure, come Apparizione, Fascinazione, Tenerezza. Ma soprattutto l’amore viene visto come lingua. Cosa significa?

Per san Bernardo di Chiaravalle quella dell’amore è una lingua che non può comprendere chi non ama. Ma alla quale allo stesso tempo possiamo accedere tutti, in quanto tutti abbiamo esperienza dell’amore. La letteratura e il linguaggio delle arti ci rappresentano questa passione universale sempre nella singolarità. All’interno di un corpo, di una storia, di una vicenda. Ciò permette di cogliere delle sfumature che altrimenti non si coglierebbero.

In che modo?

In maniera analitica, complessa, ma che permette a chiunque di cogliere qualcosa in più rispetto alla convenzione, all’uso, al consumo, all’impoverimento che dell’immaginario d’amore si fa. Fino all’usura non solo delle parole dell’amore, ma del concetto stesso di amore. I classici ci fanno recuperare un’idea dell’amore profonda e ricca.

In che misura i social contribuiscono a questa usura?

C’è una svalutazione del linguaggio dell’amore, che non permette la conoscenza dell’altro. Se non si passa dalla parola, c’è un’abbreviazione del tempo della conoscenza che porta a forme di non conoscenza o di cattiva conoscenza. Quindi di sopraffazione o di esplosione di gelosia. L’amore è una passione di grande equilibrio, una sorta di linea di perfezione alla quale si tende senza mai raggiungerla. Ma è importante tendere a questo obiettivo: la presenza dell’altro via via costituisce il tu che diventa anche fonte conoscenza di sé. I social possono illudere di essere in comunicazione con il mondo mentre in realtà si è soli. Manca l’essenziale dell’amore, che anche la letteratura rappresenta: la presenza del corpo e della parola. Della parola che si fa corpo.

Echeggia il logos giovanneo.

Il cristianesimo ha contribuito moltissimo alla rappresentazione dell’amore. Con una doppia forma. Da un lato l’agape, l’amore che non si ferma al singolo, ma si estende alla comunità. Poi, con un secondo passaggio non legato al 'tu' che discende dalle Confessioni di Agostino, con il riconoscimento della natura di tutte le cose, di tutti i viventi. Avviene con il Canticodi Francesco d’Assisi, che è fondativo della poesia italiana. Passaggio forte consegnato alla modernità e colto molto bene da Papa Francesco.

C’è un filo rosso che attraversa tutte le epoche?

Possiamo ripercorrere alcuni nodi, ai quali la letteratura dà uno spessore e una ricchezza di particolari incredibile. Prendiamo l’apparizione, di cui tutti abbiamo esperienza fino al luogo comune di espressioni come 'amore a prima vista' o 'colpo di fulmine'. Nella Recherche di Proust l’apparizione di Albertine segue un movimento lungo, progressivo. Ma essa può assumere il carattere dell’immediatezza, ad esempio in rapporto con l’elemento della luce. Come in Tolstoj tra Anna Karenina e Vronskij o tra Ottilie ed Edoardo nelle Affinità elettive di Goethe. Luce negli occhi, ma anche nel paesaggio. Qualcosa di analogo lo troviamo nell’Annunciazione cristiana. Come? L’angelo annuncia una storia d’amore, sia pure non profano, cioè l’incarnazione di Cristo. L’angelo è portatore di una luce e le Annunciazioni nella storia dell’arte rappresentano le forme di questa luce. Un altro filo rosso è la tenerezza, che è l’aspetto mite della passione. È l’amore che si piega come il ramo dell’albero, da cui viene l’etimologia latina di 'tenero', che si prende cura dell’altro.

Quale la visione del desiderio in Leopardi?

Già nel giovane Leopardi dello Zibaldone e dei primi Canti è una sorta di personale tendenza a qualcosa oltre la nostra capacità di percezione e di comprensione. Non c’è mai la pienezza, abbiamo sempre parvenze, risposte secondarie, frammenti, allusioni, possibilità. Il desiderio è radicato nel bios: si nasce e si muore col desiderio. A un certo punto Leopardi dice che è come il respiro, nasce e muore con l’uomo. Finché si è vivi si è desideranti. Un principio importante che sarà ripreso nella filosofia del Novecento.

Come Barthes, che diceva che l’amante è colui che sempre attende.

È l’apertura come condizione propria dell’umano.

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