giovedì 25 novembre 2010
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Diciamo subito: Precious racconta una storia di atrocità indicibili. Per palati forti. Ma anche un film leggero, che fa sorridere, e che – soprattutto – «celebra la possibilità di riscatto di ogni essere umano», come ha spiegato ieri a MIlano il suo regista Daniels. Premiata con due Oscar e da qualsiasi festival abbia toccato (Sundance e Cannes su tutti), la pellicola arriva in Italia domani, con quasi due anni di ritardo. Racconta la storia di Precious Jones, sedicenne semianalfabeta, obesa, nera nella Harlem arrabbiata e disperata degli anni Ottanta, quando il futuro primo presidente di colore aveva poco più di venti anni e nessuno se lo sarebbe ancora mai immaginato lassù dov’è oggi. Una ragazzina piagata da abusi sessuali, abbandono, ignoranza, devastazione sociale, Aids. Eppure – come accennato – forse perché immerso in quello spirito di speranza con cui Obama due anni fa ha spazzato via cattivi umori e cinismo, raccontando a tutto il mondo una storia degna di essere vissuta, che il film alla fine (come il libro da cui è tratto, Push,) si tira fuori dal pietismo della sconfitta e della desolazione: Precious fugge l’inferno casalingo, le serate interminabili accanto alla terribile madre teledipendente e più immatura di lei, evade dall’orrore della violenza prima nei sogni, in improvvise sequenze sfavillanti, poi nelle complicate, strette, reali aule scolastiche. «Lì c’è il riscatto, lì la ragazza-figlia-madre marca il suo destino con una scelta. Imparare. A scrivere, a leggere, a dialogare, a decidere. Quindi, a rifiutare». Precious sceglie, dopo un figlio, di tenere anche il secondo bambino dell’orco: rifiuta l’aborto e lo fa per un senso di protezione materna che è tanto più forte quanto più contrasta con quello che lei non ha ricevuto. «Io non sono un politico, sono un artista: e nel film lei decide semplicemente di non abortire» afferma il regista. Una scelta che ha premiato la fede cattolica dell’attrice protagonista, l’esordiente Gabourney Sidibe, a suo agio nel mostrare un corpo sfatto in cui sembra incidersi tutta la povertà materiale e ambientale del suo personaggio. «All’inizio volevo per la parte un’attrice non professionista – continua Daniels –. L’ho cercata dovunque, ma alla fine, invece, mi sono convinto per Gabby proprio perché era un’attrice vera. Se avessi scelto una che non fa questo mestiere, che non ha la giusta distanza, l’avrei sfruttata e basta». Il teatro della crudeltà di Daniels lascia sorridere alla fine, respirare anche, dopo una lunga apnea, ma lo fa senza essere compiacente, al punto che si è tirato dietro le critica della stessa comunità afroamericana.Accusato, lui cresciuto nero e povero come i suoi protagonisti, di usare stereotipi razzisti: «Ho voluto raccontare una storia, che non si rivolge solo agli afroamericani, perché è universale. Mi hanno fatto molto male queste accuse, ma alla fine sono state compensate dal forte apprezzamento che ho ricevuto dalla Chiesa afroamericana». Daniels scaccia l’universo malato di Precious attraverso un’insegnante: attraverso le parole, la cultura, non semplicemente la scuola, al cui sistema pubblico americano il regista riserva una critica spietata, ed esplicita anche nel film: «La scuola in America è un incubo. Non consente a chi non ha i soldi di avere un’istruzione adeguata. Il fatto che Obama sia diventato presidente non significa che nella comunità afroamericana non ci siano ancora molti problemi di analfabetismo».
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