lunedì 8 dicembre 2008
Moriva quarant’anni fa  il leggendario commissario tecnico della nazionale, che sui campi di calcio aveva traferito la psicologia imparata da alpino nelle trincee della Grande  guerra: il valore dell’uomo vien prima del giocatore.
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È stato il più duraturo dei ct del nostro calcio (guidò l’Italia ininterrottamente dal ’29 al ’48) e il più vincente dei commissari tecnici della storia azzurra (64 vittorie e 17 pareggi su 97 partite). Un giorno magari tutto questo si potrà dire di Marcello Lippi, che ha appena superato il suo record di trenta risultati utili di fila, ma fino ad oggi quel primato assoluto spetta all’eleganza sabauda di Vittorio Pozzo. Se il nuovo stregone dell’Inter, quel José Mourinho che sembra il figlio segreto del mago "H.H.", Helenio Herrera, può permettersi il lusso e il vanto di farsi appellare "Special One", a guardare il percorso netto di Pozzo ci si accorge che ci si trova di fronte a un uomo "specialissimo", quanto discusso. I suoi detrattori non gli perdonarono di vincere tanto, con quei giocatori che la stampa di regime osannava come «i ragazzi di Mussolini». Così fu molto più facile cancellarlo in fretta alla sua morte  «avvenne quarant’anni fa, nel tumultuoso ’68 (il 21 dicembre)» piuttosto che riconoscerlo come un leader carismatico, un uomo libero che non prese mai la tessera del Pnf e resistette al pressing fascista (aiutò perfino i partigiani). Per avere un ritratto completo del primo storico commissario unico della Nazionale bisognerebbe riascoltare le testimonianze dalla viva voce degli allievi prediletti: i Levratto, i Baloncieri, i Meazza, i Piola e soprattutto quella truppa di «oriundi» ("Mumo" Orsi, Monti, Guaita, Demaria, Guarisi, Andreolo) che fecero le sue e le nostre fortune. Quegli eroi di un calcio pionieristico ai quali insegnò prima di tutto l’arte del saper vivere e del «condividere». Pozzo aveva studiato da giovane in Svizzera, dove tornava spesso. Così come non mancava di salire fino a Londra per affinare l’inglese (parlava correttamente anche francese, tedesco e spagnolo), ma anche per non perdersi gli sviluppi del football nei grandi laboratori del modulo  "WM" di Arsenal e Blackburn, che « con la complicità dell’amico e collega, il ct austriaco Hugo Meisl» modificò nel più redditizio "WW". Il viaggio e la curiosità, i crismi anche del giornalista e futuro inviato de La Stampa. Un bagaglio talmente completo da essere considerato già a 26 anni un autentico ambasciatore dello sport, quando nel 1912 gli venne data la responsabilità della Nazionale impegnata nelle Olimpiadi di Stoccolma. Un’uscita di scena veloce, ma con la consapevolezza di aver seminato bene e di poter continuare l’avventura calcistica collaborando con il Football Club Torinese Era in Sudamerica in tournée con i granata quando apprese la notizia dello scoppio della Grande guerra, che convocò anche lui: tenente degli Alpini. Quella sporca guerra di trincea sterminò intere formazioni, anche di calcio: l’Inter alla fine conterà 26 morti tra i suoi tesserati, 13 il Milan, mezza Udinese e Hellas Verona versarono il loro sangue per la patria nel battaglione Cividale.Fu in quei giorni tragici che maturò il Progetto Pozzo del commissario unico. «Cominciai a convincermi che l’idea di una persona sola, che si basi beninteso, su concetti pratici e sani, porta a migliori risultati della somma delle idee di quattro, otto, dieci persone, ognuna delle quali, presa isolatamente, valga di più di quell’unica di cui parliamo». Al bando le antiquate commissioni tecniche: un uomo solo al comando dalla panchina alle Giochi di Parigi del 1924, in cui portò gli azzurri ai quarti di finale, poi persi con l’amata Svizzera. Una sconfitta che, come sempre in questo Paese dove ogni cittadino si sente un po’ ct, venne velenosamente rimarcata. Da qui la sua amara e antesignana consapevolezza: «Credo proprio che non esista al mondo argomento come quello di una formazione, di una compagine rappresentativa per seminare la discordia tra le genti: ognuno vede le cose a modo suo». Non aveva mai concepito il calcio come una professione. A mandare avanti la sua famiglia aveva pensato il lavoro da dirigente della Pirelli e il giornalismo, attività che avrebbe conservato ad ogni costo. E mentre Wall Street crollava, il ’29 segnò l’inizio della grande era degli azzurri di Pozzo. Una retorica sommaria lo voleva stratega e artefice di uno spirito cameratistico all’interno dello spogliatoio, che altro non fu invece che la genesi di una modernizzazione dei sistemi di allenamento curati nel dettaglio, con l’invenzione del ritiro (al celeberrimo Alpino di Stresa) al solo scopo di cementare lo spirito di gruppo e non certo per creare un altro totalitarismo calcistico. «Non fare della politica con nessuno, tanto meno con i giocatori e rimanere libero dai legami di ogni sorta, principalmente dai legami di carattere economico, per poter divincolarsi se necessario al momento in cui non si potesse puntare diritto allo scopo prefisso». Questo era l’idealismo puro di Pozzo che, quando ricevette la chiamata del presidente della Federazione "il ras di Bologna Leandro Arpinati" a guidare nuovamente la Nazionale, rispose: «Accetto l’incarico, a patto che non mi venga dato un centesimo». Nessun mercenarismo, le sue mire erano solo sguardi da psicologo che scrutava nell’anima dei calciatori. «Studiavo i problemi della loro vita intima, aiutavo a risolvere le difficoltà, cercavo di rendere loro facile la vita: li difendevo». Se ci fosse ancora, Ferraris IV potrebbe raccontare di quando sprofondato negli abissi dell’alcolismo e del poker venne salvato in zona Cesarini da Pozzo. In lacrime il talento romanista ascoltò il ct che gli offriva una maglia azzurra per i Mondiali del ’34. «Lei crede che io ce la posso fare ancora?», e Pozzo: «Proviamo, proviamo». Ferraris IV disputò un mondiale (allora Coppa Rimet) strepitoso sotto gli occhi del Duce e quell’energia incredibile che sprigionava dalla panchina portò l’Italia all’oro olimpico (l’unico del calcio) di Berlino ’36 e due anni dopo al bis iridato di Parigi. Pozzo si dimise da ct nel ’48 per dedicarsi al ruolo di dirigente del Grande Torino, che dovette piangere un anno più tardi, lassù sulla collina di Superga. Dopo la sua, quella di Valentino Mazzola sarebbe potuta diventare la Nazionale perfetta, l’essenza di un calcio fatto di uomini veri dove per Pozzo «l’uomo ha vero merito quando costruisce qualcosa di suo: non quando si limita ad abbattere ciò che altri hanno costruito».
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