venerdì 27 luglio 2012
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​«Domani dovevo essere ai Giochi di Londra a correre la prova su strada e avrei potuto dire la mia, perché ho 30 anni, sono al top della condizione e quel percorso pare disegnato su misura per le mie caratteristiche. Un’occasione unica... Sarebbe stata la mia seconda Olimpiade dopo quella di Atene, lì per colpa del virus le gambe non giravano e ho potuto solo passare la borraccia per lo strappo finale di Bettini, che andò a vincere l’oro. Ora, invece, sono qui, ad allenarmi da solo, fermato ingiustamente per una storia che non sta né in cielo né in terra...». È lo sfogo mattutino (prima della pedalata d’allenamento, «sto in sella 5 ore al giorno e la sera corro per sfogarmi») di Filippo Pozzato, ciclista di primo piano del movimento azzurro, con una Milano-Sanremo vinta nel 2006. Un anno dopo l’incontro con il dottor Michele Ferrari: la “relazione pericolosa” che gli ha sbarrato il passo e tolto il pass olimpico. Il dottor Ferrari è un “soggetto inibito”, pertanto la sua frequentazione è costata a Pozzato la richiesta di squalifica di un anno avanzata dalla Procura Antidoping del Coni, «alla quale ho risposto immediatamente con l’autosospensione».Una telefonata a un ex compagno di squadra (Guido Trenti) la incastra, quella in cui dice di essere «cliente» del dottor Ferrari.Io, come tanti miei colleghi, ho cominciato ad andare da Ferrari nel 2005. Quindi, tre anni dopo quella sentenza di inibizione nei suoi confronti che, peraltro, nonostante le ricerche approfondite del mio avvocato, Pier Filippo Capello, non è risultata né a noi né tanto meno all’Uci, alla Federazione e neppure al Coni. Un mistero.Però alla Procura Antidoping è bastata la sola «frequentazione» per impedirle di andare di Giochi.Una situazione surreale, a cominciare dal fatto che si vuole dipingere il dottor Ferrari come l’uomo nero del ciclismo e io come l’unico ciclista che si sarebbe avvalso delle sue consulenze tecniche. Al procuratore Torri, quando sono stato sentito, ho fatto anch’io una domanda legittima: come mai almeno 200-300 ciclisti sono stati seguiti da Ferrari e avete fermato solo me? Non ho ricevuto risposta...Ma perché voi ciclisti vi rivolgevate tutti a Ferrari?Non solo i ciclisti si rivolgevano e si rivolgono ancora al dottor Ferrari, ma tantissimi atleti di discipline diverse. Vanno da lui perché è il più bravo e questo nell’ambiente lo sanno tutti. Così come si sa che le sue tabelle di allenamento sono le migliori e le più imitate. Ma chi le copia ottiene risultati assai più scadenti rispetto a quelle originali.E qui sorge il dubbio che, oltre alle tabelle ci possa essere di più, tipo l’utilizzo di farmaci...Siamo fuori strada. Quando mi sono rivolto a lui, la prima cosa che mi ha detto è stata: se vieni qui e pensi di andare più forte perché ti darò delle medicine, allora sappi che la porta è quella, puoi anche uscire subito. Con lui solo tabelle quotidiane, un test ogni 20 giorni sulla salita del Monzuno, sugli Appenini. Si lavorava solo sulla condizione fisica, mai preso niente...Dalla porta del suo studio quando è uscito per l’ultima volta?Alla metà del 2008. Da allora, fino al 2010, come allenatore ho avuto Sandro Callari e con il dottor Ferrari sono andato a cena un paio di volte. Non ho mai saputo di trovarmi a tavola con una persona inibita e “infrequentabile” per un ciclista professionista. A norma di regolamento, non c’è neppure un esplicito divieto.Pozzato “capro espiatorio” del sistema?No, l’idea che mi sono fatto di questa brutta storia è che la questione sia politica e l’obiettivo da colpire non fossi io, ma il dottor Ferrari. Non esistono vittime del sistema, neppure quando si parla di doping, perché ogni ciclista ha la sua coscienza e deve rispondere prima di tutto al suo senso di responsabilità.Non si può negare, quindi, che il doping è ancora uno spettro che aleggia sul ciclismo?Rispetto ai drammatici anni ’90, si è fatto molto per ripulire il ciclismo e il nostro passaporto biologico è lo strumento di maggiore trasparenza esistente in tutto il mondo dello sport. Il problema è che in Italia, rispetto al resto dell’Europa, esiste ancora una cultura “marcia” che mette a repentaglio il futuro delle nuove generazioni. Quello che per gli anglosassoni è il primo comandamento, fare sport come educazione e divertimento per i ragazzi, da noi è l’ultima delle regole e tutta ancora da scrivere.Ci spieghi meglio.Significa che nel ciclismo ci sono allievi e juniores che smettono di andare a scuola per fare una vita da professionisti a tutti gli effetti, con stipendi anche da mille euro al mese. A 16 anni in tante squadre dilettantistiche non insegnano a correre per divertirsi, ma solo che conta vincere, e basta. E per arrivare primi è lecito fare qualsiasi cosa, compreso l’abuso di farmaci e sostanze dopanti.Un genitore, allora, farebbe bene a tenere lontano il proprio figlio dal ciclismo?No, la mentalità sta lentamente cambiando, i controlli antidoping sono diventati più assidui e severi. C’è maggiore attenzione, perché chi sbaglia sa di finire nel penale. Il fatto che il ciclismo sia più pulito lo dimostrano anche i tempi in gara. È finita l’era delle salite da fantascienza di Pantani o Armstrong, all’ultimo Tour Wiggins ha vinto con tempi decisamente umani.L’uomo al centro della dimensione sportiva è lo spirito che da sempre anima le Olimpiadi. Come ha reagito a questa esclusione?Appena ho ricevuto la comunicazione del Coni, mi sono chiuso in camera e per due ore ho pianto come un bambino. Mi sono visto crollare il mondo addosso. Tutti i sacrifici di una vita andati in fumo, pensavo... Poi mi sono aggrappato alla fede che grazie a Dio non mi ha mai abbandonato e con l’aiuto di don Marco Pozza ho deciso che la mia Olimpiade la “correrò” in Kenya.C’è un giro del Kenya al quale può gareggiare ugualmente, nonostante la sospensione?Macché, nelle due settimane olimpiche andrò a prestare soccorso ai bambini dei centri di accoglienza alla periferia di Nairobi. Il mio sogno, quando smetterò con il ciclismo, è di dedicarmi agli ultimi, alle persone che hanno più bisogno d’aiuto. E poi vorrei tanto aprire una scuola pubblica, ma sul modello dei college, per i giovani atleti, in cui la crescita culturale vada di pari passo con quella sportiva. Perché è questo che da noi manca, ed è ancora la causa dei tanti piccoli drammi dello sport.
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