mercoledì 1 novembre 2017
In un pamphlet sul rapporto fra Vangelo e denaro, lo studioso sminuisce il valore della beatitudine. Ma i paradossi della Bibbia e della vita vanno approfonditi, non ridotti
Il teologo Naud: «La povertà non è un ideale». E se lo fosse?
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Non è mai stato facile scrivere un’etica del denaro e dell’economia partendo dai vangeli. Riconoscere questa difficoltà, potrebbe in molti casi essere sufficiente per non iniziare un tale compito o fermarsi subito. Ma la tentazione di ricavare direttamente dal vangelo principi morali per l’economia della nostra società è molto forte, quasi invincibile. Qualche volta, anche chi legge questi libri sente un bisogno, anche questo invincibile, di scriverne una recensione, soprattutto se l’oggetto del libro sono i poveri e la povertà – che fanno spesso fatica a difendersi da soli dagli scrittori e dagli esperti.

Ho fatto questa esperienza dopo la lettura di un piccolo libro di André Naud (1925-2002), Il vangelo e il denaro (Queriniana, pagine 88, euro 9,00), che è stato un docente canadese di teologia e filosofia, “perito” durante il Concilio Vaticano II. Autore di lavori teologici importanti. Il cui discorso sulla povertà evangelica, è, quanto meno, molto discutibile. E per questo lo discutiamo. Un pregio di questo pamphlet è la coerenza e la chiarezza del messaggio, che ricorre tenace dalla prima all’ultima pagina: «In breve, nelle Beatitudini non troviamo l’insegnamento di Gesù sull’atteggiamento da assumere di fronte alle ricchezze… Ancor meno siamo invitati a pensare che secondo Gesù la povertà reale sarebbe un ideale che tutti i cristiani dovrebbero perseguire» (p. 20). Infatti, secondo Naud, la prima beatitudine di Matteo – beati i poveri in spirito – sarebbe la lode «dell’umiltà del cuore», e la natura di quella di Luca – beati i poveri – sarebbe «dare una parola di conforto a coloro che sono poveri di fatto, ricordando loro le promesse dell’al di là».

Come se il Regno, promesso ai poveri come contenuto della beatitudine, non fosse invece qualcosa di molto concreto per l’al di qua, o che nell’Umanesimo biblico, di cui le beatitudini sono massima espressione, non esista una promessa di al di là che non inizi già ora nella storia. Commentando il brano del “giovane ricco”, poi coerentemente aggiunge: «È palesemente inopportuno presentare la povertà come un ideale per i cristiani». Perché «salvo vocazioni particolari ed eccezionali, non possiamo parlare della povertà come un valore da consigliare e da coltivare» (p. 25). Peccato che queste “vocazioni particolari” siamo quelle di frati, monaci, suore, consacrati, che per due millenni hanno costituito una pietra angolare della Chiesa e del mondo, hanno seguito i consigli evangelici, e tra questi la povertà. Come se essere un benedettino o una clarissa fossero “casi particolari” e un po’ strampalati da non i- mitare da parte della comunità ordinaria dei cristiani. E sorge la domanda: cosa sono le vocazioni consacrate nella Chiesa? Qualcosa di bizzarro, raccomandato solo a persone con personalità particolari, a eroi o folli? A questa sua analisi Naud associa anche il collega Jacques Dupont, che a proposito ancora delle beatitudini affermava: «Ma tale povertà, è realmente voluta, le se annette un valore, se ne fa un ideale? La risposta di Luca a questa domanda non può essere che un No categorico » (p. 80), perché, conclude Dupont, «Luca considera la povertà come un male». Quindi, la povertà sarebbe «un anti-valore» (p. 81).

La prima beatitudine del discorso di Gesù avrebbe questo statuto di maledizione, che invece non avrebbero “la mitezza”, “la costruzione di pace”, la “persecuzione per la giustizia”, la “misericordia”, che la seguono. Alcune beatitudini buone, altre cattive. E perché? E su quali basi? Questo libro di Naud è interessante perché presenta tesi che stanno crescendo e acquistando forza e popolarità, dentro e fuori le Chiese cristiane. Naud e Dupont non sono i primi né saranno gli ultimi a scrivere queste pa- role tristi sulla povertà evangelica. Per questa ragione vanno prese sul serio, discusse e criticate in profondità. Sono sempre più, infatti, teologi e cristiani che in nome del vangelo, e spesso anche in buona fede, contribuiscono a colpevolizzare i poveri per la loro povertà, magari in nome della meritocrazia. Quando si disprezza la povertà si torna alle teologie economiche dell’antichità, contro le quali hanno lottato con tutte le loro forze Giobbe e Gesù. Questa interpretazione della povertà mi lascia davvero molto perplesso. Non si capisce dove siano fondate nella Scrittura, nella tradizione, né nella vita della gente. Ignorano san Francesco, Teresa di Calcutta, e i tanti carismi che nella Chiesa ci hanno detto di scegliere la povertà come via concreta per incarnare il vangelo e le sue beatitudini.

Sono due millenni – e lo abbiamo scritto più volte su queste pagine – che il “discorso della montagna” resiste agli attacchi di chi cerca di ridicolizzarlo, di definirlo inutile, dannoso, una illusione, una consolazione. Questo è vero per tutte le beatitudini, ma è particolarmente evidente e forte per la beatitudine dei poveri. In tanti continuano a ripetere che «beati» non sono i poveri veri, ma i ricchi che vivono il distacco spirituale dalla loro ricchezza, chi usa i beni per il bene comune, chi li investe nelle imprese, o magari nella finanza. E così, anche quando diciamo cose condivisibili, ci allontaniamo dal semplicissimo e tremendo «beati i poveri » delle beatitudini. Non è certo facile capire quella beatitudine, forse perché è troppo semplice. Sarebbe necessario attraversare il suo terreno paradossale, scandaloso, ambivalente e quindi manipolatorio (ogni verità grande è grande perché si presta a essere manipo-lata: anche questa beatitudine è stata oltraggiata, abusata, usata contro i poveri, ma resta vera). Ancora più normale è stato ridurre o amputare questa folle felicità per farla rientrare nei nostri “letti” troppo più corti di quelli del vangelo. I paradossi della Bibbia, e della vita, non si risolvono riducendoli, ma cercando di avvicinarci alla loro grandezza.

Per capire qualcosa del paradosso della beatitudine dei poveri, dovremmo prendere molto sul serio la seconda parte della beatitudine, la sua promessa: il Regno dei cieli. Ogni beatitudine la si capisce se la leggiamo tutta, fino alla fine. I poveri sono beati perché sono abitanti del Regno dei cieli. Per questa ragione è la prima beatitudine, a fondare tutte le altre. Poveri erano gran parte dei discepoli di Gesù. Lo avevano incontrato sulle vie della Palestina, e poi lo avevano seguito restando poveri e beati. Mentre Gesù li guardava e chiamava beati abitavano già in quel Regno degli uomini e delle donne delle beatitudini: miti, puri, perseguitati, misericordiosi, affamati di giustizia, afflitti, poveri. Un Regno dove si conosce la provvidenza, che solo i poveri sperimentano davvero – una tipica “povertà” dei ricchi è l’indigenza di provvidenza. Nel dire «beati i poveri» Gesù parlava ai suoi, e parla ancora ai suoi, non a una élite speciale tra i suoi. Chi non coglie la verità e il mistero di questa prima beatitudine semplicemente non entra nella logica del Regno dei cieli, e quindi resta sull’uscio del vangelo, della sua buona novella. Non tutti i cristiani e non tutti gli uomini scelgono «madonna povertà», ma tutti dovremmo almeno rispettarla e stimarla, e soffrire quando non riusciamo a liberarci dai nostri beni. Soffrire per non conoscere la stessa gioia di Francesco e dei suoi fratelli e sorelle. Di non assaporare quella fraternità cosmica, di non imparare quella libertà assoluta, di non potere baciare la bocca e le mani dei lebbrosi, di non conoscere quella perfetta letizia. Non è obbligatorio essere poveri, neanche nella Chiesa. I ricchi non sono esclusi dai sacramenti, sono sovente lodati sui pulpiti e ringraziati anche dagli stessi poveri. Sono sempre stati parte, legittima e anche importante, delle comunità cristiane. Vivono più a lungo, hanno una migliore istruzione e salute, hanno mag- giori confort. Ma non conoscono quella beatitudine dei poveri, non vedono le loro stelle più clarite et pretiose et belle. Sotto il nostro sole c’è anche questa forma di giustizia, ed è grande. Ma per capirla un po’, prima c’è bisogno di assaggiare qualche boccone di povertà vera, di averla sentita sulla propria carne, profonda e dolorosa. Solo un povero può ripetere «beati i poveri» senza manipolare quelle parole. Il libro di Giobbe ci aveva detto che il povero è innocente, nonostante tutti gli sforzi dei teologi del tempo di dimostrargli la sua colpa. Le beatitudini incontrano Giobbe e tutti i poveri e dicono loro una parola nuova e meravigliosa: «Non siete solo innocenti: siete anche beati». I mucchi di letame restano, ma dal giorno in cui quelle parole furono dette in Palestina, e poi scritte, è arrivata sulla terra anche la beatitudine. La beatitudine della povertà è la prima, ma può arrivare tardi nella vita. Qualche volta è l’ultima beatitudine. Giunge dopo aver camminato molto, e se siamo nati tra le ricchezze e i comodi il cammino può essere molto duro e il suo finale incerto. Può essere necessaria tutta la vita per sentirsi dire alla fine: beato te, o povero. Tutti possiamo diventare abitanti di quel Regno, fosse soltanto nell’ultimo minuto. E, forse, soltanto lì capiremo che era proprio vero: «Beati voi poveri, perché vostro è il Regno dei cieli».


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