
Don Giussani con un gruppo di giovani - archivio
A vent’anni dalla morte, Libreria Editrice Vaticana pubblica il volume L’incontro che accende la speranza (a cura di Davide Prosperi, con prefazione del cardinale Pietro Parolin; pagine 144, euro 14,00) che contiene le lezioni, il dialogo in un’assemblea e la sintesi – finora inediti – di don Luigi Giussani con i giovani universitari di Comunione e Liberazione a un corso di esercizi spirituali da lui tenuto nel 1985. e un ribaltamento di prospettiva nell’incontro con un Tu, il Mistero fatto carne. Ne anticipiamo un estratto in queste colonne.
Quando sentiamo Beethoven o Schubert – ed è ormai normale quando ci raduniamo –, il senso della grandezza e il senso della bellezza che si sprigionano dalla musica e ci penetrano tutta l’anima sono un incontro. […] Anche da quell’accento profondo di umanità la nostra preghiera deve essere destata, perché la preghiera è tutta quella musica, è tutta quella tristezza, tutto quel senso di incoerenza, di sproporzione, è tutto quel desiderio che non può essere finito. La preghiera è tutta la nostra umanità: non c’è una situazione d’animo, per quanto arida, che la impedisca; come dice Ungaretti, non c’è nessuno tra noi che sia così senza voce da essere impedito di pregare (La pietà (1928). 1).
Dobbiamo odiare di ripetere le cose perché ci vengono fatte ripetere. Qui sì occorre essere padroni di noi stessi. Dobbiamo ripetere le parole perché siano fatte nostre: la vita deve esser fatta nostra. La vita è di un Altro, ma deve esser fatta nostra: questo è il possesso e la libertà.
Ci sarebbe umanità senza la passione per la verità – ditemelo –, senza l’ideale, senza il desiderio, la passione, il fascino della verità? Ci sarebbe l’uomo – l’uomo! –? No! E senza il fascino, il desiderio, la tensione alla pienezza, alla perfezione, al compimento o – nel suo riverbero psicologico – alla felicità, ci sarebbe l’uomo? No! Riempitele, se potete, queste parole! Non si può! Eppure, costituiscono la stoffa della nostra vita.
Dobbiamo cercare – questa è l’amicizia – di aiutarci a mantenerci a questo livello di cose, altrimenti degradiamo e la nostra vita è senza senso e senza utilità. È questa la fatica della nostra compagnia. […] Dobbiamo ridare tutta l’ampiezza originale alle nostre esigenze. Insomma, perché in certi momenti in cui sentiamo la musica siamo come travolti dentro un’onda di umanità che ci fa ritornare noi stessi, ci fa sentire noi stessi? È come se ci dilatasse. È come se fossimo stati fino allora curvi, curvi con lo stomaco piegato contro le ginocchia, con la testa che non può alzarsi perché c’è il muro; non possiamo muoverci a destra e a sinistra, siamo lì schiacciati, come nel buco di un sottoscala, e finalmente, sentendo certe cose, è come se potessimo tirarci su diritti, spalancare le braccia, respirare e tirar su la testa. È l’uomo che si erige nella sua statura.
Dobbiamo ridare tutta l’ampiezza alle nostre esigenze. «L’uomo, monotono universo», dice Ungaretti, «Crede allargarsi i beni /» col suo daffare, «E dalle sue mani febbrili / Non escono senza fine che limiti» (La pietà (1928). 4): tutto quello che fa è sempre limitato. Raramente è stata espressa con più icasticità l’impotenza dell’uomo a soddisfare, a satis facere, a compiere ciò che è: […] «Dio, guarda la nostra debolezza. // Vorremmo una certezza. // […] Non ne posso più di stare murato / Nel desiderio senza amore». C’è un meccanismo, di cui l’uomo è fatto, che non può essere bloccato; ma, se non è riconosciuto nel suo significato, allora è senza amore, è un desiderio senza amore. È come un meccanismo che si logora e basta. Un desiderio senza amore, un desiderio senza significato vuol dire un desiderio che non riconosce ciò di cui è colmo. Un desiderio senza amore è un desiderio, un meccanismo, che non riconosce l’altro, perché l’amore è riconoscere l’altro. […] «Fulmina», o Dio, «le mie povere emozioni», inutili, «Liberami dall’inquietudine. // Sono stanco di urlare senza voce» (La pietà (1928). 1): «Urlare senza voce» è il desiderio senza amore, un meccanismo senza contenuto, senza significato, senza che riconosca ciò che lo desta e lo lancia. Ma la maggior parte di coloro che ci stanno attorno, la maggior parte della gente del nostro tempo vive senza senso, perché un desiderio senza amore o un urlo senza voce è il non senso. […]
Questa è la natura dell’uomo: «Si ama ciò che non dura solo in nome di ciò che può durare» (C.-F. Ramuz, Adamo ed Eva, Dadò 2014, p. 119). Bergson ha messo in rilievo molto bene il valore di questa parola, «durata». «Si ama ciò che non dura» vuol dire: si ama ciò che non è, che non ha consistenza, «solo in nome di ciò che può durare», solo in nome dell’essere, del permanente.