sabato 6 ottobre 2018
Intervista al grande pianista balcanico. Ivo Pogorelich compie 60 anni e viene festeggiato questa sera da PianoEchos a Casale Monferrato
Ivo Pogorelich suona questa sera a Casale Monferrato

Ivo Pogorelich suona questa sera a Casale Monferrato

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C’è un episodio della biografia di Ivo Pogorelich che sembra impossibile non citare: la frase «Questo ragazzo è un genio » pronunciata da una stizzita Martha Argerich mentre abbandona la giuria per protestare dall’eliminazione del giovane Ivo al terzo turno del concorso Caikovskij di Mosca. Un episodio esemplare e profetico, perché Pogorelich è un pianista che ha sempre diviso le platee e più ancora i critici con le sue letture spesso molto libere: specie quando era una star del pianismo degli anni 80 e 90 ma anche ora, tornato da alcuni anni con assiduità sulle scene dopo una rarefazione delle presenze attorno al passaggio di secolo (anche in virtù di un impegno umanitario nei nativi Balcani). Sono indiscutibili la tecnica vertiginosa e un autentico culto del suono (Pogorelich giustamente rivendica il lignaggio diretto della scuola lisztiana via Aliza Kezeradze, sua insegnante e poi moglie, allieva di Siloti), le illuminazioni laterali che spezzano tradizioni e abitudini, il piglio aristocratico che dà corpo a una spiccata autocoscienza del proprio valore e del proprio ruolo all’interno della storia del pianismo.

Ivo Pogorelich questa sera sarà a Casale Monferrato per PianoEchos, festival pianistico itinerante giunto alla quindicesima edizione. Sul leggio l’Adagio in Si minore K540 di Mozart, la Sonata in Si minore di Liszt, gli Studi sinfonici di Schumann. Per l’occasione riceverà il premio “Tasto d’argento”, in concomitanza con il suo 60° compleanno.

Maestro Pogorelich, quando la sua fama esplose, colpì il suo approccio al repertorio da molti giudicato non conformista. Da parte sua è cambiato il modo di intendere la musica e il pianoforte?

«Il mio punto di vista sulla musica che suono non è mai cambiato, quello che è cambiato è il risultato di un processo costante di miglioramento e questo processo porta come bonus anche i frutti. Per esempio se suono oggi musica che ho suonato tempo fa, ritrovo freschezza, ispirazione e un senso di riscoperta».

Quali sono per lei i pilastri su cui costruire l’interpretazione? Ma allo stesso tempo: si riconosce nella parola “interprete”?

«La musica senza l’interprete è come una collezione di libri, il lavoro di un interprete è proprio quello di istillare vita nella musica. La parola cruciale è “rispetto”: per il compositore, per lo strumento e anche, molto importante, rispetto di se stessi. Queste sono le tre parole chiave».

Liszt dedicò la sua Sonataa Schumann (come ringraziamento per la dedica nella Fantasia), il quale però non la capì. Il concerto di questa sera mette di fronte i due compositori. Quali sono i valori in campo? La dimensione “sinfonica” ricercata da entrambi è una sfida allo strumento o al pianista?

«Quello che unisce questi brani è l’incredibile fantasia e la curiosità che entrambi i compositori misero per scoprire nuove potenzialità dello strumento: i pezzi sono sinfonici nel trattamento del pianoforte, ma allo stesso tempo sono anche molto intimi e anche questa è una caratteristica che li unisce».

Come si connette a tutto questo l’Adagio di Mozart con cui si apre il programma?

«L’Adagio è un lavoro rivoluzionario, scritto da Mozart poco prima della morte ed è visionario nell’uso dei registri dello strumento e nell’impiego delle armonie, tracciando la via per sviluppi futuri. La grande intimità, la poesia dell’anima permette alla musica di diventare molto personale. È interessante notare che è una pagina scritta nella stessa tonalità della Sonata di Liszt, in Si minore».

Nei concerti lei usa lo spartito, una scelta abbastanza rara. Perché?

«Uso una varietà di spartiti dello stesso pezzo e spesso faccio le mie annotazioni durante le mie ricerche. La musica mi accompagna nei miei tour e talvolta nell’intervallo di un concerto o dopo o nelle prove scrivo nuove annotazioni di qualcosa che è importante per me».

C’è un repertorio che non ha mai suonato e che non suonerà mai? E invece territori che vorrebbe esplorare?

«La vita di un pianista dovrebbe durare centinaia di anni per coprire una piccola parte del repertorio pianistico, perciò dobbiamo fare una scelta, la scelta è molto spesso il risultato di inspirazione ma talvolta anche il desiderio di cambiamento: per esempio dopo aver suonato un stile particolare di musica , si vuole entrare in una epoca differente e fare qualcosa in contrasto».

Lei in questi giorni è tornato in sala di registrazione. È il primo disco dopo lungo tempo, fatta salva l’incisione esclusivamente in digitale per Idagio nel 2015 di alcune sonate di Beethoven. Perché per anni non ha più inciso? E perché ha deciso di tornare?

«Ho appena finito di registrare la Sonata n. 2 di Rachmaninov in Austria. È un lavoro che ho suonato in periodi differenti della mia vita e ora è registrato: è molto eccitante per me, poiché rappresenta un cumolo di lavoro di un periodo di oltre 25 anni o più da quando ho iniziato a suonarlo. Non ho registrato più perché durante questi anni ho lavorato sia sulla musica che sul suono, sul colore e nel processo volevo dare un forte contributo nell’arte di suonare il pianoforte. Per questo avevo bisogno di tempo».

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