sabato 29 aprile 2017
Il 30 aprile 1977 le prime 14 «Madres» si radunavano nella piazza centrale di Buenos Aires per protestare a favore dei figli desaparecidos
Un corteo delle «Madri di plaza de majo» nel 1985, quando già era finita la dittatura militare. Due le fondatrici ancora viventi: «Fu tutta un’improvvisazione, anche la data la scegliemmo a caso  e poi spontaneamente ci demmo appuntamento la settimana dopo. I soldati ci dispersero quasi subito e, siccome ci impedivano di fermarci, camminavamo; non avevamo paura».

Un corteo delle «Madri di plaza de majo» nel 1985, quando già era finita la dittatura militare. Due le fondatrici ancora viventi: «Fu tutta un’improvvisazione, anche la data la scegliemmo a caso e poi spontaneamente ci demmo appuntamento la settimana dopo. I soldati ci dispersero quasi subito e, siccome ci impedivano di fermarci, camminavamo; non avevamo paura».

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Il giorno si è perso nell’oblio del tempo. Eppure, tutti – o meglio, tutte – concordano sul fatto che quello è stato l’inizio. Con una frase pronunciata con l’incoscienza tipica dell’amore materno. «Andiamo a Plaza de Mayo», disse Azucena Villaflor De Vincenti. «Era esasperata. Da oltre quattro mesi pellegrinava per commissariati e associazioni alla ricerca di informazioni su Néstor, desaparecido il 30 novembre 1976. Insieme ad altre decine e decine di madri, trascorreva le giornate nei corridoi degli uffici, in attesa di briciole di menzogne da funzionari ipocriti e melliflui. Non ne poteva più. E sbottò: 'Non serve a niente. Dobbiamo chiedere conto al governo. Andiamo a Plaza de Mayo'', racconta la figlia Cecilia. Azucena non c’è più. Anche lei ingoiata come Néstor e altri 30mila argentini dal terrore dell’ultima dittatura militare (1976-1983).

I suoi piedi, però, continuano a calpestare, in cerchio, la pavimentazione rossiccia di Plaza de Mayo. Là, sotto l’obelisco bianco dell’indipendenza, riposano le sue ceneri. «E un pezzo del suo cuore», prosegue Cecilia. Poiché, da quella frase improvvisa, è nato il movimento simbolo della lotta non violenta al regime argentino. Modello di molte altre resistenze al femminile nel mondo. Le Madri di Plaza de Mayo. Per questo la data della prima marcia o ronda, come dicono le Madres, è passata alla storia. Domani saranno trascorsi 40 anni esatti. «A differenza del giorno in cui ad Azucena venne l’idea, il 30 aprile è rimasto impresso nella memoria collettiva – prosegue la figlia –. Quel giorno un gruppo di donne, 'armate' solo delle foto dei figli scomparsi, diede inizio alla lenta sconfitta dei generali». Non l’avrebbero mai immaginato. Il pomeriggio del 30 aprile 1977 si ritrovarono in poche: 14. Undici mamme e le sorelle di una di loro. Delle pioniere ora solo tre sono ancora in vita. Mirta Acuña de Baravalle è una di loro. «Non pensavamo nemmeno che sarebbe stata una marcia – racconta la donna –. Fu tutta un’improvvisazione. Perfino la data la scegliemmo quasi a caso, senza nemmeno guardare il calendario. Così non ci rendemmo conto che era un sabato, quando la Plaza, nel cuore commer- ciale di Buenos Aires, è semideserta».

Le 14 coraggiose restarono poco. Immediatamente i soldati intimarono di disperdersi. «In quei momenti non avevo paura. Pensavo solo a mia figlia – continua Mirta –. Me l’avevano strappata via un’alba d’inverno australe. Avevano fatto irruzione in casa e li avevano presi: Ana María e suo marito, Julio César Galesi. Rivedevo le loro facce mentre li caricavano sulla Ford Falcon verde». La prima delle oltre duemila marce, in realtà, fu un breve sit in sotto la statua dell’eroe nazionale Manuel Belgrano, ancora più vicino alla Casa Rosada, sede e simbolo del governo. A camminare le costrinsero, nei mesi successivi, i militari: con lo stato di emergenza, gli assembramenti erano proibiti. I soldati le pungolavano con i fucili perché si spostassero. Le donne – o meglio le 'mamme' come cominciavano ad autodefinirsi – si misero invece a camminare a due a due. Il fazzoletto bianco arrivò in seguito: lo usarono come segno di riconoscimento, per la prima volta, durante un pellegrinaggio al Santuario di Luján, nell’autunno del 1977. Come pure la scelta del giovedì. «Quel 30 aprile, prima di andar via, ci demmo appuntamento per la settimana successiva. Non un sabato, però. Dovevamo scegliere un giorno infrasettimanale. Provammo con il venerdì. Poi, dopo alcune settimane, qualcuna disse che era un 'giorno da streghe' e avrebbe portato sfortuna. Allora optammo per il giovedì. E, così, è rimasto».

Ogni giovedì, da quarant’anni, alle 15.30 il cuore dell’Argentina palpita a Plaza de Mayo. Una dopo l’altra, le madri arrivano. C’è chi si aggrappa al bastone, chi al braccio di un nipote affettuoso. Chi addirittura si fa strada con la sedia a rotelle. In alcune, come Nora de Cortiñes, a lungo presidente, o in Enriqueta Rodríguez de Maroni, la forza si nasconde in un fisico così esile da sembrare evanescente. Mirta, invece, si distingue per l’andatura fiera: a 92 anni, è ritta e elegante come una trentenne. Accanto a lei Haydée Gastelú de García Buelas, l’altra delle fondatrici superstiti ancora in prima linea. Della terza non si conosce il nome: quella prima volta non lo diede e poi non tornò più, forse divorata anche lei dalla ferocia della dittatura. «Non siamo rimaste in molte – scrive Taty Almeida, una delle colonne del movimento, nel libro-intervista Orfana di figlio (Claudiana) –. Ci sono madri che non possono più camminare però non ho sentito nessuna dire: 'Adesso mi voglio lasciar morire'. No! Combattono tutte per continuare in qualsiasi modo a vivere e a lottare». Di tanto in tanto, passanti e turisti si uniscono alla ronda. Che, purtroppo, s’è spezzata in due.

Con il ritorno della democrazia il movimento s’è diviso in due rami: Madre de Plaza de Mayo e Madres de Plaza de Mayo-Linea Fundadora. Tempo e lacerazioni, però, non hanno scalfito la forza inarrestabile della loro marcia silenziosa. Così la descrive Massimo Carlotto in Le irregolari (E/O): «Si respirava un’atmosfera particolare, densa, quasi palpabile, struggente, devastante e irreale allo stesso tempo. Poi capii: l’intensità dell’amore con cui le madri pensavano ai loro figli scomparsi li rendeva in qualche modo presenti». È quell’amore a rendere la lotta delle madri non un residuo del passato ma un seme di futuro. «Hanno vissuto il dolore più lancinante: la perdita di un figlio – spiega Cecilia Vincenti –. Sole e chiuse ciascuna nella propria sofferenza, erano destinate a soccombere. Nel pianto comune, hanno imparato a moltiplicare l’amore, riversandolo su tutti i ragazzi desaparecidos, fino a renderlo più invincibile». L’amore ha dato alle Madres la forza di andare avanti. E di lottare per la memoria, la verità e la giustizia, in Argentina come in ogni altra parte del mondo. Perché – come amano ripetere – «le lotte per il bene non sono mai perse. La sconfitta è restare inermi».

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