martedì 5 maggio 2009
Altro che leggenda nera creata da Popper, come vorrebbe Mario Vegetti. I filosofi concordi: la «Repubblica» è zeppa di analogie con Marx e il «Mein Kampf».
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I due volumi de La società aperta e i suoi nemici apparvero il primo nel dicembre del 1973 e il secondo nel gennaio del 1974. E quella dell’accoglienza da parte dell’intellighenzia italiana dell’opera politica di Popper è un’altra triste storia. L’opera non venne criticata su di un punto o su un altro e con argomentazioni di tipo scientifico; essa, sostanzialmente, venne o ignorata ovvero, il più delle volte, coperta di insulti: cosa poteva mai insegnare ai tanti possessori di modelli di società perfetta, di verità incontrovertibili e di ineluttabili sensi della storia un «reazionario» come Popper, un «maccartista», difensore delle società capitalistiche occidentali?Al «Platone totalitario» di Popper sono contrari anche noti antichisti italiani come Margherita Isnardi Parente, Giovanni Reale e Mario Vegetti, che è tornato sul tema venerdì scorso su La Repubblica, presentando il suo nuovo volume Un paradigma in cielo (Carocci). A partire da Aristotele sino ai nostri giorni, precisa Vegetti, la tradizione del pensiero liberale ha con grande decisione respinto il progetto politico di Platone. Fa presente Vegetti che «Popper vedeva in Platone il primato assoluto dello Stato sull’individuo, e, all’interno dello Stato stesso, la consegna di un potere assoluto a una minoranza che si proclamava depositaria di un sapere assoluto, i cui metodi e i cui fondamenti non potevano però venir resi pubblicamente espliciti: che cosa ci può garantire, diceva Popper, che questa minoranza (di filosofi in Platone, ma magari anche di dirigenti di partiti quali quello giacobino, comunista o nazista) non eserciti di fatto una dittatura sottratta a ogni controllo democratico?».Di fronte ad attacchi del genere, prosegue Vegetti, i difensori di Platone si sono divisi in due gruppi. Da una parte si trovano coloro che, da posizioni liberal-democratiche, hanno sostenuto che il progetto utopico proposto da Platone nella Repubblica non deve venire preso alla lettera. Diversamente dai simpatizzanti di posizioni liberal-democratiche, «i simpatizzanti del pensiero socialista e comunista, come Pohlmann, hanno visto in Platone uno dei precursori di questa tradizione. Non sono mancati, infine, negli anni Venti e Trenta del nostro secolo, usi di Platone in senso fascista e nazista: essi apprezzavano il primato che Platone indubbiamente assegna allo Stato, rispetto ai cui interessi le libertà e i diritti individuali vengono in secondo piano». Ebbene, quel che va sottolineato è che, ad avviso di Vegetti, «Platone ritiene che la costruzione della società descritta nella Repubblica è difficile ma non impossibile. Si tratta dunque di un "mondo possibile" che deve venire progettato, desiderato e, se le circostanza sono favorevoli, costruito; di un dovere etico-politico». Ora, però – viene da chiedere a Vegetti – se il progetto politico di Platone non è un gioco intellettuale, un sogno, un castello sulle nuvole, ma è il tentativo di trasformare in mondo reale un mondo ideato e guidato da una pattuglia di filosofi che sanno che cosa è il Bene e che, di conseguenza, saranno divorati dallo zelo – dal diritto e dovere – di imporre questo Bene a ogni costo, attraverso quali argomenti un simile progetto potrà distinguersi da una concezione totalitaria del potere politico?«Platone fu il giuda di Socrate e la Repubblica fu per lui non soltanto Il capitale, ma anche il suo Mein Kampf» – così Gilbert Ryle sintetizzò nel 1948 su "Mind" l’intepretazione popperiana di Platone. Nel 1951 uno studioso di Platone come Richard Robinson scrisse: «Popper sostiene che Platone ha pervertito l’insegnamento di Socrate. Platone, ad avviso di Popper, è in politica una forza perniciosissima, mentre Socrate è una forza estremamente benefica». Ancora nel 1959 Popper afferma: «La mia opinione che Platone sia stato il più grande di tutti i filosofi non è per nulla mutata. Ma i grandi uomini possono commettere grandi errori»; il grande errore di Platone fu che egli incoraggiò «il perenne attacco contro la libertà e la ragione».Un altro durissimo e ben argomentato – sebbene meno noto – attacco contro Platone l’aveva formulato nel 1937 Alfred Hoernlé. La pretesa dei dittatori del suo tempo, ad avviso di Hoernlé, era proprio quella di essere dei filosofi-re: «Uomini con una Weltanschauung, con un piano per la salvezza spirituale dei loro popoli, con una esplicita teoria su quel che è bene per i loro popoli, addirittura per l’umanità tutta; uomini che giustificano per se stessi un uso brutale della forza, la spietatezza nel plasmare i soggetti secondo lo standard dei loro ideali e nello schiacciare qualsiasi opposizione, e questo esattamente in vista del bene che essi cercano di realizzare, non a beneficio personale, quanto piuttosto a beneficio dei popoli che loro governano». I filosofi-re di Platone, prosegue Hoernlé, governano con un’autorità assoluta: «Essi non consultano il popolo; non vengono eletti dal popolo; non possono venir rimossi dal popolo; non sono, tanto per usare il linguaggio delle democrazie parlamentari, "responsabili" davanti al popolo. Son un corpo che si autoperpetua reclutando i propri membri tramite cooptazione tra più giovani uomini e donne la cui educazione è stata da loro controllata per circa trent’anni; uomini e donne che loro hanno plasmato e messi a prova, più duramente di quanto il ferro sia provato sul fuoco, come dice lo stesso Platone». Ebbene, conclude Hoernlé, «i filosofi-re e i loro ausiliari (le due classi più alte nello Stato di Platone) sono sostanzialmente l’analogo del dittatore moderno e del fedele, disciplinato Partei (sia il partito comunista in Russia, il partito fascista in Italia, o il partito nazionalsocialista in Germania), per mezzo del quale il dittatore domina».
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