giovedì 5 agosto 2021
Dubbi sui due primati del mondo nei 400 ostacoli con tempi stratosferici: sotto accusa le nuove calzature che garantirebbero risultati migliori. Ma quelle di Jacobs le hanno usate anche tre avversari
Una delle scarpe speciali dei velocisti, messe sotto accusa perché più performanti

Una delle scarpe speciali dei velocisti, messe sotto accusa perché più performanti - Reuters

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Correre, vincere, trovare record oltre gli ostacoli, usando ogni mezzo lecito, sfruttando la scienza. L’atletica è una palestra per questo, Olimpiadi e tecnologia sono un binomio inscindibile, ogni edizione dei Giochi ha le sue novità. E insieme le sue polemiche. Tokyo non fa eccezioni, anzi. Così quando il norvegese Karsten Warholm l’altro ieri nella finale dei 400 ostacoli ha fermato il cronometro a 45’’94, qualcuno ha immediatamente messo in pista qualche dubbio.

Non è solo il nuovo record del mondo il suo, è un tempo da marziani: su quella distanza già andare sotto la barriera dei 46 secondi sembrava impossibile, e lo è ancora di più limare di 76 centesimi il primato realizzato dallo stesso Warholm un mese fa. Ma la gara forse in assoluto più sorprendente della storia dell’atletica fa rumore anche perché l’americano Rai Benjamin, medaglia d’argento, la corre in 46’’17. E Alison dos Santos, bronzo, in 46’’72. In tre dunque sotto il vecchio e storico record mondiale di Kevin Young (46"78) che resisteva dal 1992, una cosa mai vista.

Ieri un altro primato sbriciolato, ancora sui 400 ostacoli: questa volta è femminile il risultato che lascia a bocca aperta. L’americana Sydney McLaughlin in 51’’46 è andata a prendersi l’oro battendo il suo stesso record mondiale (51’’90) ma soprattutto abbassandolo di 70 centesimi rispetto al tempo con cui Dalilah Muhammad aveva vinto i campionati del mondo a Doha nel 2019.
I tecnici attribuiscono parte della spiegazione di questi risultati straordinari alla pista particolarmente veloce dello stadio Olimpico di Tokyo. Prodotta da un’azienda piemontese, la Mondo di Gallo d’Alba (Cuneo) che da Montreal 1976 fornisce l’anello olimpico, è un’evoluzione di quella che fu posata a Rio nel 2016. La biomeccanica di questa pista costata 1 milione e mezzo di euro è stata testata dal laboratorio di ricerca della Asics in Giappone ed è composta da due strati sovrapposti di resina gommosa: quello più superficiale è stato migliorato nel grip in modo che i chiodi delle scarpe degli atleti abbiano più presa e stabilità. E sono soprattutto sono le scarpe, appunto, a scatenare il dibattito. Gli scettici in servizio permanente effettivo hanno già capito tutto. Sotto accusa le nuove calzature chiodate usate dai velocisti: hanno una piastra di carbonio più larga della pianta del piede che amplia la superficie di contatto, consentendo un miglior equilibrio nei primi appoggi e migliorando l’accelerazione nei primi 30-40 metri di corsa. Per la federazione internazionale che le ha attentamente studiate, non c’è nulla di irregolare. E non c’è pericolo che possa accadere come nel 1968, quando prima dei Giochi di Città del Messico, John Carlos corse i 200 in 19"70 a Echo Summit, in altura, ma il suo tempo non venne convalidato perché l’americano gareggiò con scarpe non regolamentari, con numero di chiodi superiore a quello autorizzato, e quindi con maggiore presa sul terreno e più spinta.

Niente scarpe al limite del regolamento per Karten Warholm, comunque: il norvegese volante ha voluto puntualizzarlo subito: «Le mie hanno un plantare in carbonio studiato dalla Puma insieme a Mercedes, ma non lo spessore su cui altri molleggiano…». Molti però parlano comunque di "doping tecnologico". Il dibattito va avanti da tempo, sotto accusa prima sono state le calzature "magiche" dei maratoneti, paragonate per i vantaggi che offrirebbero ai body suit, i “costumoni” interi gommati con inserti di poliuretano, che il nuoto ha vietato ormai da qualche anno. Ora tocca alle superscarpre: Usain Bolt, l’uomo che detiene dal 2009 il primato del mondo dei 100 metri, tanto per incendiare un po’ l’ambiente, interrogato in proposito ha risposto che lui con quelle calzature avrebbe migliorato di molto i suoi già strepitosi primati.

Anche l’impresa di Marcell Jacobs è nel mirino degli scettici: se gli americani hanno sollevato velati dubbi sull’integrità fisica del nuovo dominatore della gara più prestigiosa dell’atletica, altri parlano delle “ali” che aveva ai piedi, le MaxFly della Nike, che sarebbero in grado di far guadagnare a chi le indossa fino a 8 centesimi di secondo sulla distanza dei 100 metri. Qualcuno ha vivisezionato la sua meravigliosa vittoria e il 9’’80 (record europeo) realizzato grazie a 45 passi, un picco massimo di velocità di 43,056 km all’ora raggiunto tra i 60 e i 90 metri quando la sua falcata è stata di 2 metri e 27. Merito delle scarpe? Sembra davvero improbabile. Le MaxFly pesano solo 173 grammi, i tecnici concordano sul fatto che la piastra di carbonio nella suola garantirebbe in effetti una maggiore stabilità nei primi appoggi dopo la partenza: una specie di molla che aumenterebbe l’elasticità e favorirebbe le prestazioni. Resta il fatto che nella finale di domenica, dove tutti hanno corso sotto i 10 secondi, quelle stesse scarpe le indossavano anche l’americano Kerley (secondo), il sudafricano Simbine (quarto) e il cinese Su Bingtian (sesto), finiti abbondantemente alle spalle di Jacobs.

Quello che dunque pare solo un uso lecito della tecnologia disponibile, non cancella comunque il sospetto che lo sfruttamento dell’innovazione possa spingersi oltre le regole. A Tokyo 2020 ci sono già stati dei casi nella vela, con quattro squalifiche (Irlanda, Brasile, Germania e Argentina) in due regate nella classe 49er e 470 per un trapezio modificato.

Il resto, tornando all’atletica, lo fanno i sistemi integrati oggi a disposizione degli atleti. Lo studio delle prestazioni in allenamento risulta decisivo per impostare programmi e correggere errori. Già da molti anni nelle loro maglie super aderenti un trasmettitore invia i dati delle pulsazioni alle scarpe (ancora loro), dotate a metà suola di un minuscolo sensore che rileva velocità e distanza percorsa. Viene da riflettere pensando che Jesse Owens fece i suoi record mondiali senza sapere che il suo cuore batteva strano. E che il grande Emil Zatopek, nel ’52 a Helsinki vinse la maratona olimpica: non avendo idea del ritmo, al 15esimo chilometro chiese all’inglese Peters: «Stiamo andando bene?» e quello per avvantaggiarsi gli rispose: «No, siamo troppo lenti». Zatopek non voleva crederci, ma accelerò, e Peters stramazzò. Non avevano nessun sistema integrato, nessuna scarpa volante. Si allenavano e tenevano duro. Il ritmo glielo dava il proprio fiato. Quando non ne avevano più, si fermavano. Ma quello era un altro mondo, un altro sport.

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