lunedì 21 novembre 2016
Terminati i restauri del capolavoro di Buonamico di Buffalmacco, ritenuto ormai perduto dopo il bombardamento sul Camposanto del 1944. Paolucci: «2.500 metri quadri di pittura “tostati” dalle fiamme»
Un particolare del Giudizio Universale di Buonamico di Buffalmacco (Camposanto di Pisa), dopo i restauri

Un particolare del Giudizio Universale di Buonamico di Buffalmacco (Camposanto di Pisa), dopo i restauri

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Per tre giorni e tre notti bruciò il Camposanto di Pisa, nel luglio del 1944. L’incendio, scatenato dalla granata che il 27 aveva colpito il tetto del prodigio gotico di Piazza dei Miracoli, aveva fuso il tetto in piombo, mentre i 2.500 metri quadrati degli affreschi – che tra Tre e Quattrocento avevano vegliato sulle tombe dei pisani illustri e intimorito i viventi – «erano stati cotti, potremmo dire tostati dal calore e dalle fiamme», dice Antonio Paolucci. Tre giorni per distruggerli, oltre settant’anni per riportarli in vita. Degli affreschi – opera del Maestro del Trionfo della morte, da molti identificato con Buonamico di Buffalmacco, Taddeo Gaddi, Andrea di Bonaiuto fino a Benozzo Gozzoli – storici dell’arte e restauratori se ne presero carico subito.

Dal 2009, però l’Opera della Primaziale ha impresso una svolta decisiva con la creazione di un commissione guidata scientificamente da Paolucci e con una équipe di restauratori diretta da Gianluigi Colalucci (il responsabile della pulitura della Cappella Sistina) e Carlo Giantomassi. Un lavoro che sta giungendo al termine. Ieri, nei laboratori approntati ad hoc nella prima campagna pisana, sono stati presentati i restauri del Giudizio Universale di Buonamico di Buffalmacco (1336-1341), pronti per essere ricollocati – tra fine dicembre e inizio gennaio – al loro posto nel Camposanto. Mentre il Trionfo della morte, il capolavoro del maestro fiorentino, è ormai alle fasi finali.


«Presentiamo quella parte di affreschi del Camposanto rimasti relativamente indenni dall’incendio del 1944. Qui c’è ancora la materia cromatica, la pelle dell’affresco: e il lavoro eccellente dei restauratori gli ha ridato leggibilità. Ci restituiscono un grandissimo artista dove si vede in opera quel naturalismo che è stata la grande scoperta della rivoluzione giottesca: non solo la natura fatta di spazio, di profondità, di ombre e di luci, di colori che “pigliano variazione dai lumi”, come diceva Leon Battista Alberti, ma anche il naturalismo delle espressioni. Prendete i volti dei dannati. Volti di uomini e donne, rappresentati per il vero, sentimentale ed emotivo. C’è ira, sgomento, paura. Ci parlano come se fosse il Dante dell’Inferno o il Boccaccio del Decameron. Questa è la grandezza del Maestro del Trionfo della morte».

Si compie così un percorso iniziato poche settimane dopo il disastro, quando «Cesare Brandi, giovane direttore dell’Istituto centrale del restauro – ricorda Paolucci – arriva a Pisa risalendo con mezzi di fortuna l’Aurelia, servendosi dei camion dell’armata americana. Arriva con un pacco di fotografie in bianco e nero, la campagna Alinari di fine anni 30. E ancora oggi quelle bellissime foto in bianco e nero sono la base fondamentale del nostro intervento. Da allora tre generazioni di storici dell’arte e restauratori sono passati da lì: da Carlo Ludovico Ragghianti, ancora comandante del Cnl, a Umberto Baldini in divisa di sottotenente dell’esercito di liberazione, da Ugo Procacci e Bernard Berenson fino a oggi. Quanti professionisti si sono alternati di fronte a questi affreschi». Che, strappati negli anni 50 e incollati su lastre di Eternit (all’epoca non se ne conosceva la pericolosità), erano stati collocati in una sala ad hoc. «Il problema era la restituzione sulla parete originale. Ci voleva coraggio: e l’ha avuto Pierfrancesco Pacini, presidente dell’Opera primaziale pisana, nel dare vita a questo progetto. Realizzato da grandi specialisti che fanno capo all’Opera e in collaborazione con la Soprintendenza, il Cnr, i Musei Vaticani, esperti di climatizzazione...».


Una delle sfide più difficili in questo restauro è stato separare le tele, su cui erano stati riportati gli affreschi, dal supporto in Eternit, evitando procedure meccaniche anche per non polverizzare l’amianto. Per farlo sono stati impiegati dei batteri, “addestrati” dal macrobiologo Giancarlo Ranalli dell’università di Campobasso per divorare residui di colle animali, mentre con quelli affamati di caseina è stata ripulita la pellicola pittorica dalle vernici protettive spalmate nel dopoguerra. «Ma bisogna dire – afferma Gianluigi Colalucci – che se non fosse stato per l’eccezionale tecnica pittorica dell’affresco, questi dipinti, dopo quello che è successo, oggi non sarebbero qui».

Quello del Camposanto, spiega Colalucci, «è un caso speciale. Per come è stato risolto tecnicamente e per il valore degli affreschi. Al di là dei singoli aspetti tecnici, una delle cose più importanti è che abbiamo provato, e ci siamo riusciti, a ridurre i passaggi in modo che fosse un’operazione meno traumatica. I restauratori qui sono abilissimi, hanno una esperienza lunga su questo specifico problema, un fatto che va a merito della Primaziale pisana. Abbiamo rimontato gli affreschi su pannelli rigidi in vetroresina con una camera interna in alluminio, grazie ai quali potranno andare in parete. E quando saranno lì avranno di nuovo la loro “aria”».

Un’operazione che si concluderà nella primavera 2018, con la ricollocazione del Trionfo della morte. «Allora restituiremo ai pisani il loro Camposanto monumentale completo di tutto l’arredo pittorico in condizioni climatiche ideali», dice Paolucci. Un particolare sistema di retroriscaldamento, unico al mondo, in caso di necessità manterrà i dipinti a una temperatura di uno-due gradi al di sopra di quella ambientale, evitando la formazione di condensa, in passato letale: «Ci sono tutte le premesse perché il Camposanto possa essere goduto fino a un tempo indeterminato. Ma non si dica che il Camposanto è tornato al primitivo splendore. Quello di oggi non è che l’ombra dell’ombra di quello che era fino all’estate del 1944. Ma pezzi ben conservati come questo fanno capire ciò che era, e soprattutto che il grande secolo degli italiani è stato il Trecento. Non ultimo, questo restauro è anche il risarcimento dell’ultima ferita della Seconda guerra mondiale. Non rimaneva che questo per chiudere i conti con il conflitto».

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