Giambattista Piranesi, “Antiquus Circi Martial...”, dalle “Antichità Romane” (1756) - .
L’architettura di Giambattista Piranesi non è un’architettura d’immaginazione, perché la fantasia ha nelle stesse Antichità romane una forza eterodossa che può provenire soltanto da una mente formatasi in una vertiginosa libertà. Nel catalogo della mostra che Bassano del Grappa dedica a Piranesi, a partire dal fondo delle opere cartacee della Biblioteca Civica e dalla storia postuma delle sue incisioni nella gestione dei figli in rapporto coi Remondini (fino al 19 ottobre), Luca Massimo Barbero sottolinea la partita persa in partenza con la potenza immaginativa, «le sovraeccitazioni dimensionali del gigantismo piranesiano», cui un mezzo moderno come la fotografia, anche quella del pur grande Gabriele Basilico, deve arrendersi. Basilico era stato coinvolto dai curatori della mostra allestita dalla Fondazione Cini di Venezia nel 2010 – con trecento opere di Piranesi, video, maquette in scala e fotografie –, affinché svolgesse una ricognizione sui luoghi piranesiani a Roma, Tivoli e Paestum. Il risultato, pur eccellente, aveva come ostacolo oggettivo, diciamo così, il limite analitico insito nel mezzo. La sua ottica “scientifica”, insomma. Lo si capisce avvicinando la Veduta della Piramide di Caio Cestio e un’analoga inquadratura di Basilico. Piranesi ha una voce da tenore, Basilico si colloca fuori scena e tende quasi al silenzio. La voce dell’incisore veneziano insegue la grandezza dei romani, si veda lo splendido secondo Frontestizio del libro sulla “magnificenza” (1781), cogliendola nell’amministrazione sagace dei primi due principi vitruviani, firmitas e utilitas, e diffidando invece del terzo, venustas, perché troppo favorevole all’epidermia estetica greca (preferiva decisamente il dionisiaco della Grecia arcaica e selvaggia, warburghiana per così dire). Cerca la grandezza, ma non per l’applicazione di regole e codici, cioè di un canone ereditato. Anzi, tende a destrutturarlo, per non dire che si comporta come una furia vitale che ha un rapporto con la storia bouleversant, per certi aspetti ironico e vicino alla “decostruzione” linguistica che sarà poi un cavallo di troia del postmoderno.
Ma Piranesi ha una forza d’immaginazione che gli consente di creare mondi fantastici attraverso la metamorfosi ricreativa di quelli reali (delle loro rovine). In certe immagini, sembra quasi di vedere con un secolo e mezzo d’anticipo certe scenografie della Roma hollywoodiana. Visioni che rievocano quelle del bolognese Antonio Basoli, il quale lo segue di vari decenni e ha certamente meditato sui mondi piranesiani. Si tratta di una archeologia che ricrea il passato riportandolo in scena con una vitalità interna che stupisce. Si vedano i frontespizi dei vari libri di quell’opera maestosa, anche nell’ampiezza dei numeri, che sono Le Antichità romane: per esempio, Antiquus Bivii viarum Appiae et Ardeatinae prospectus e Antiquus Circi Martial.
Giambattista Piranesi, Ftrontespizio “Della Magnificenza ed architettura dei Romani” - .
Aveva disegnato di fantasia l’austriaco Joseph B. Fischer von Erlach, un’aurora di pensieri sull’Egitto fantastico nel clima favorevole agli esoterismi del gesuita Athanasius Kircher, cioè su mondi che non sono mai esistiti nelle forme con cui sono stati rappresentati; von Erlach, architetto vissuto poco prima che Piranesi nascesse, disegnò una Grandiosa piramide egizia di Tebe il cui aspetto si allontanava molto dalla realtà; questo tipo di immaginazione si manifestò poi anche in due francesi coevi di Piranesi: Ledoux e Boullée; era un frutto dell’illuminismo che si apre alla rivoluzione, una sorta di storicismo teso alla palingenesi delle forme pure e primarie. Forse il più capace di prendersi gioco di questa visione che vuole azzerare i canoni per tornare alla purezza delle origini (mai esistita, anzi!) è un altro francese, della generazione successiva, Jean-Jacques Lequeu, a cui Parigi un paio d’anni fa dedicò una grande retrospettiva. Lequeu spinse sul pedale dell’anticlassicismo forzando in senso surreale le architetture monumentali e puriste dei suoi due predecessori, ma, in virtù di un elevato tasso di pensieri nevrotici, mise sulla carta architetture che anticipano i giochi estetici e i non sense dei surrealisti di un secolo dopo e dei postmoderni, con quella libertà inventiva che era un punto fermo dello stesso Piranesi. Lequeu e Piranesi attribuirono, in modi diversi, un ruolo evocativo all’ornamento capace di portare oltre la povertà razionalista della Petite cabanne rustiche che, a metà Settecento, costituiva per l’ex gesuita Laugier un punto di partenza (o di arrivo?) nel Saggio sull’architettura. La capanna in una linea che da Laugier arriva ad Adolf Loos, a Le Corbusier, vedi il suo Cabannon, per non dire delle casematte di Muthesius che ispirarono Aldo Rossi. Ma ecco la sentenza piranesiana: «la severità, la ragione e l’imitazione delle capanne, sono incompatibili con l’architettura» dice Didascalo, uno dei due protagonisti del Dialogo compreso nel Parere su l’architettura (l’altro, il rigorista, era Protopiro).
Per Piranesi la nuda capanna di Laugier era inaccettabile e le sue incisioni, sia che raffiguri da una prospettiva rialzata il Campo Vaccino sia dal basso i resti del Tempio della pace oppure degli Acquedotti neroniani, per non dire delle Carceri d’invenzione, tutte le sue visioni individuano il punto chiave per scardinare tanto le verità prestabilite quanto i precetti dedotti dalla storia, compresa la troppo facile assimilazione dell’architettura all’antropometria cara ai greci e... a Le Corbusier, che però era eretico anche verso se stesso. Ridurre l’ornamento a un fatto sovrastrutturale è un errore del razionalismo di derivazione cartesiana (un problema, starei per dire, tipicamente francese, ne è testimone Jacques Rivière con la sua ultima opera dedicata al carattere dei propri connazionali).
Una prospettiva della Via Appia a Roma in una stampa di Giambattista Piranesi dalle “Antichità Romane” - .
Dovendo scegliere un assistente di laboratorio, fra storia e natura Piranesi decise chiaramente per quest’ultima, perché la natura, con le sue verità, smonta la storia e la fa sembrare un’espressione dei rapporti fra architettura e potere. La natura mette alla prova i pregiudizi: si potrebbe dire che contesta l’idea della «maestra di vita» ovvero il pregiudizio che trasforma le vicende umane in storia, mirando a farne dogma, idea che nell’arte si fissa in uno stile e in un canone. In realtà, dice Piranesi, il canone, il codice, lo stile esistono per essere fatti a pezzi. La natura – e l’ascolto della materia – è qui il fondamento stesso dell’anticlassicismo piranesiano. Ma così facendo Piranesi – impetuoso nelle idee, quanto sulfureo nelle sue visioni – nega se stesso, cioè viene meno alla sua idea di natura.
Che cosa c’è al mondo di meno naturale dell’uomo? L’uomo, custode del creato, è colui che con le sue idee stravolge l’ordine ricevuto, non per puro sfruttamento della terra nel segno della visione economica neoliberista, ma come tentativo di andare oltre, di portare la natura a trasfigurare ciò che in essa è soltanto accennata (la natura può e deve essere trasformata, altrimenti assurge a perfezione data). Piranesi si avvicina a Michelangelo, al suo eroico anticlassicismo, perché trasferisce sulla carta le visioni che la natura porta in sé senza conoscerle. Così natura viene metamorfizzata e appare necessaria alla fantasia. L’immaginazione intuisce il confine, la fantasia gli offre un piano su cui riflettersi e rivelarsi. Si tratta di leggere la metamorfosi già dentro la natura stessa, la varietà contro l’ordine fatto di regole stabilite a priori.