martedì 28 gennaio 2014
​In viaggio con la prima documentarista italiana Oggi a 87 anni è tornata a girare per denunciare i mali dell’industria nella sua Puglia
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Cecilia Mangini, nata a Mola di Bari nel 1927, fotografa, dopo un esordio come critico cinematografico, inizia la sua opera con il marito, Lino Del Fra, e in collaborazione con Pier Paolo Pasolini, con lavori documentaristici sulle periferie cittadine: Ignoti alla città (1958) e La canta delle marane (1960), ispirato dal romanzo Ragazzi di vita . E il documentario Stendalì (1960), sulle lamentazioni funebri nella provincia di Lecce. Nell’analizzare la fabbrica, affronta i drammi sociali legati al boom economico. Ad esempio in Essere donne, (1965) o in Brindisi ’66 (1966), sul petrolchimico Monteshell a Brindisi (1965). Poi Domani vincerò (1969), e All’armi, siam fascisti! (1962) con Lino Miccichè, dall’inizio del fascismo fino ai fatti di Genova del 1960. Seguirà Stalin, del 1963. Nel 2012 si reca a Taranto per raccontare e sostenere le mobilitazioni contro l’inquinamento prodotto dalla locale industria siderurgica. «No, l’inerzia no». È il grido che tuona in tutti i minuti de In viaggio con Cecilia, il do­cumentario da oggi in tour promozionale nelle sale delle principali città italiane, girato a quat­tro mani da Cecilia Mangini, la prima donna documentarista italiana, insieme a Mariangela Barbanente. Raccontata nel suo inconfondibile mix di tristezza e bel­lezza, la Puglia industriale è il contesto che ha unito queste due registe simbolo di un’Italia che non si arrende e che con­tinua a credere nel ruolo insostituibile della donna. 87 anni, sguardo profondo e sempre curioso, Cecilia Mangini è ri­tornata sul set, grazie all’invito della co­regista, a raccontare la Puglia dopo 42 an­ni dall’uscita del suo ultimo film, La bri­glia sul collo. Tanti anni lontana dal set. Come mai o­ra ritorna a raccontare la Puglia indu­striale?«L’iniziativa è stata di Mariangela Barba­nente. Doveva essere una ricognizione nel­la Puglia di oggi e poi siamo state travolte dalla successione degli eventi che si svol­gevano nell’Ilva di Taranto. All’inizio era tutto fermo, l’arresto di Emilio Riva, il 'pa­drone' dell’Ilva, ha messo in moto le per­sone. Questo moto però non si vede nelle nuove generazioni presenti nei film. Ma quando la politica si muove anche la gen­te non resta indifferente».A proposito di inerzia, cosa le manca nei documentari dell’Italia di oggi? «Si è quasi persa la speranza nel cambia­mento. Quando ho girato i documentari sull’industrializzazione della Puglia, sulle città di Brindisi e Taranto, potevi toccare con mano la grande attesa mentre il ri­scatto del Sud Italia aveva inizio. Nella Pu­glia di oggi quella stessa industria ha di­strutto negli anni quella attesa, lasciando la popolazione senza parole. Si è iniziato a fare molto, però è nulla se si pensa alla malformazione dei neonati, agli orfani de­gli operai. Mentre girava insiema alla Barbanente cosa l’ha colpita in profondità? Ho un debito nei confronti di Luigi Di Gianni, il cantore della Lucania di Ernesto De Martino: lui mi ha fatto comprendere quanto sia determinante il senso del sacro nelle persone. Sono molto affezionata al­la storia di Rosangela Chirico, la donna, orfana di padre, che ha creato un rosario con le medicine di suo papà. Attraverso la creazione di quel rosario Rosangela è riu­scita a cambiare il proprio dolore in un im­pegno di denuncia, di ricerca della verità. Nell’Italia degli anni ’50 i registi erano so­lo uomini. In quegli anni era normale considerare che la donna fosse di 'serie b'. Nessuno si po­neva il problema dell’ingiustizia profon­da che era esercitata obbligando altri es­sere umani a sentirsi e a essere giudicate figlie di un Dio inferiore. Nel momento in cui ho girato Essere donne , uscito poi nel 1965, l’aria era permeata da una profonda rivoluzione. Il problema della nostra so­cietà si può riassumere in una parola: il senso del potere. Penso ad esempio alle madri che rinunciano a essere donne in carriera per dedicare più tempo alla fami­glia: non sono donne che rinunciano a se stesse, ma donne che rinunciano a eserci­tare un potere che giudicano sbagliato. Credo che gli uomini debbano imparare da quelle donne perché siamo una società che considera il potere come un fine per vivere». Oggi ci sono molte più donne registe. «Quando ho iniziato a lavorare come foto­grafa nell’Italia degli anni ’50 eravamo so­lo in due, Chiara Samugheo e io. Un pro­duttore cinematografico mi chiamò a girare un film. Amavo il cinema alla fol­lia, organizzavo circoli con Comenci­ni, Antonioni e Monicelli: dopo aver visto La grande illusione di Renoir, ho capito come il cinema avrebbe aiuta­to a capire la realtà del mondo. È stata una folgorazione. La fatica di essere donna e regista nella società contem­poranea è maggiore rispetto agli anni ’50. L’impegno delle artiste di oggi deve esse­re più forte: sono chiamate a raccontare le nostre contraddizioni, i problemi non risol­ti, e soprattutto la donna contemporanea».
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