La pieve di San Pietro a Romena (Arezzo), del XII secolo, dove ha sede l'omonima Fraternità
Uno dei pochi miracoli che può ancora accadere nella grande palude editoriale è quello di terminare di leggere un libro e provare la sensazione dell’assetato che ha sorseggiato ogni pagina fino all’ultima goccia, e adesso, gli tocca tornare nel deserto e rimettersi in cammino, confidando nella prossima oasi. È quello che capita dopo aver richiuso “Sempre” (Chiarelettere, pagine 160, euro 15,00). Un’opera involontariamente sapienziale, realizzata a quattro mani o dettata ad alta voce – ma non troppo – dallo scrittore Maurizio Maggiani e da don Luigi Verdi, fondatore della Fraternità di Romena, nel Casentino. Due uomini, nati negli anni Cinquanta, che arrivano da sentieri intricati, passati per sterpi e rovi interiori, e non solo quelli del natio Appennino tosco-ligure, apparentemente opposti. Esperienze così lontane eppure così vicine, specchi riflessi di parole e immagini dense per il narratore dei celeberrimi romanzi “Il coraggio del pettirosso” e “Il viaggiatore notturno”; di Verbo e di cristiana accoglienza per il responsabile della Fraternità ospitata nella magnifica pieve del XII secolo di San Pietro a Romena. Don Luigi Verdi ha fatto l’esperienza diretta del deserto, è stato con i campesinos in Bolivia ed è approdato alla pieve dopo una profonda crisi personale. Il “visionario” di Castelnuovo Magra alla letteratura arriva dopo un passato da fotografo industriale, venditore di pompe idrauliche e maestro di scuola. Maurizio e Luigi, profili uniti da un filo sottile di costante, innata anarchia, prima di tutto spirituale. Ma la loro non è opera di due predicatori erranti e tanto meno il solito saggio da imbonitori prestati dal mondo del romanzo breve o dalla teologia low cost, ma un confronto sincero, a cuore aperto. Un dialogo spontaneo fin dal titolo, “Sempre”, ispirato dalla la scritta impressa su un murale genovese fotografata da Maggiani. «Sempre» è uno dei tanti misteri sui quali si indaga, nonostante – dicono in accordo gli autori – «non c’è fisico, non c’è teologo, non c’è amante che possa mettere la mano sulla parola “sempre”. Eppure è come una culla, se ti metti lì dentro ti senti al sicuro. Un miracolo, no?».
È un miracolo anche questo “breviario” che accarezza l’anima e fa sentire il lettore come al cospetto del cartello d’ingresso della pieve di Romena: «Entra ti aspettavamo». In quella pieve, come il poeta Franco Loi, anche Maggiani ha trovato una pagina bianca in cui scrivere di sé. Ha aperto il suo cuore un po’ «bogomilo» (la comunità cristiana eretica dei Balcani del X secolo), da uomo che «non è cattolico ma non per questo non ho diritto di accedere al sacro». Così si presenta lo scrittore dinanzi all’amico prete, ricordandogli che anche il suo amato Giuseppe Garibaldi, «il più grande mangiapreti», quando è morto sopra il letto teneva il ritratto di don Giovanni Verità: l’uomo che lo aveva salvato dagli austriaci nascondendolo in casa sua. La fede laica che Maggiani ripone nell’Eroe dei due mondi, in quanto massimo esempio di coerenza («Garibaldi dice ciò che fa e fa ciò che è») è la stessa che don Luigi prova nei confronti dei suoi amati maestri. In particolare Charles de Foucauld, ma anche Giovanni Vannucci e padre Arturo Paoli. E poi suor Maria di Campello, la cui sintesi del passaggio terreno è: «Se tutta la mia esperienza fosse come un canto d’allodola nella notte, mi basta». Queste le figure di riferimento di don Luigi, «uomini più leggeri che hanno reso il dolore creativo» come le parole che affiorano nel loro dialogo. O le parole rimosse, come macigni. «Da anni non uso più la parola “pace”, da quando mi sono reso conto che ha perso nel discorso comune qualunque suo senso, qualunque sua ragione – denuncia Maggiani –. Così la parola “libertà”: se la uso, lo faccio con molta attenzione». Non è un confronto filologico, quello che li impegna a sviscerare il senso di “povertà”, “disciplina” e “dignità”. La forza rivoluzionaria di Gesù, «il più grande dissacratore della storia», e di san Francesco non è messa in discussione da Maggiani, che riscontra «più bellezza dove c’è più povertà perché un povero non può sprecare. La semplicità è bellezza». Don Luigi, il bello lo ha trovato nelle icone che gli ha fatto scoprire il pastore zwingliano Giosuè Bosch, il quale gli ha insegnato: «Impara a lasciare le cose prima che le cose lascino te».
Maggiani nell’incontro costante con Romena e con don Luigi assapora il gusto dell’appartenenza, perché «non sono le religioni che rendono religiosa la vita, la vita è religiosa di suo», e il valore fondante dell’umiltà, che «non è vivere da arresi, ma è riconoscere la propria fragilità, la propria piccolezza e lasciarla nelle mani di Dio». Maurizio e Luigi hanno seminato pensieri vivi e il loro raccolto ora è a uso e consumo di un’umanità sempre più stanca, disabituata a vivere nel presente. «Cercate il Regno di Dio, il resto lo avrete in più. Noi cerchiamo il superfluo e non abbiamo tempo per quello che conta. Se puntiamo a ciò che vale il resto non mancherà» è l’insegnamento di don Verdi, che invita al «silenzio, alla gioia e l’obbedienza». Metafore incarnate dall’evangelico «giglio del campo e uccello del cielo», ma per trasmettere il concetto di “dovere” ricorre alla musica e le parole di De André: «Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso». Ubbidienza rimanda al latino “obaudire”, quindi alla capacità di saper ascoltare. I due amici mentre parlano a turno, si riascoltano e si comprendono. Questa è la “fiducia” di cui parla san Giovanni della Croce: «È chiudere gli occhi e procedere al buio». Un buio illuminato dalle parole che lo scrittore «cerca e conserva», consapevole che «il giorno che dovesse morire Dio, morirebbe anche l’anarchia e noi non possiamo permetterlo». Intanto riposa la mente e lo spirito nella quiete di Romena in cui don Luigi sogna una «fraternità che è un’oasi di pace dove possono riposare Dio e l’uomo».