giovedì 18 gennaio 2024
Il regista lanciò un appello su giornali e in radio per "Il Vangelo secondo Matteo": risposero in moltissimi. Ora quelle lettere, fotografia dell'Italia degli anni '60, diventano un documentario
Irazoqui e Pasolini sul set di "Il Vangelo secondo Matteo"

Irazoqui e Pasolini sul set di "Il Vangelo secondo Matteo"

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Si identificarono con quello che non erano né potevano essere, che poi è il grande trucco del cinema. Gli italiani e le italiane degli anni Sessanta volevano essere Gesù in un film, quando Gesù era una rockstar, fino al punto di sentirsi, vedersi e raccontarsi in una sorta di sogno. La colpa e il merito? Di Pier Paolo Pasolini che ne cercava uno con un appello su giornali e in radio, per Il Vangelo secondo Matteo (1964). Sembra una canzone di Lucio Dalla, un regista cerca interprete per Gesù su un giornale, e la gente risponde. E le risposte sono un altro film. Nelle risposte si mischiano il sogno del cinema con la fuga da sé. Immaginandosi altro, provano a superare la realtà. Fino a farne ossessione che diventa una esplicitazione religiosa a suo modo. Le lettere in risposta all’appello di Pasolini diventano suppliche perfette: salvami/salvaci/salviamoci. Pasolini lesse quelle lettere e poi le regalò allo scrittore Augusto Frassineti che aveva scritto Misteri dei Ministeri e un Un capitano a riposo romanzi che avevano a che fare con le suppliche, le circolari ministeriali e l’ironia che dal Palazzo arrivava alle cucine italiane. Ora quelle lettere sono diventate un documentario: Capelli quasi biondi, occhi quasi azzurri – 78 lettere a Pier Paolo Pasolini (regia di Simona Risi, scritto da Donata Scalfari, prodotto dalla 3D, visibile su Sky). E la lettura di quelle lettere ci restituisce meglio dei dati Istat che Italia c’era, che sentimenti aveva, che cosa immaginava e voleva essere con tutto il carico di ingenuità e una fiducia sconfinata in un regista, poeta e scrittore come Pasolini. Che a sua volta, usando come Madonna sotto la croce sua madre Susanna Colussi, confessava di voler essere anche lui Gesù.

Potremmo dire che negli anni Sessanta tutti volevano essere Gesù e lo scrivevano. Ma che Gesù era? Un Gesù democraticamente trasfigurato in barbiere, bambino, ladro, falegname, scaricatore di porto, impiegato, reduce di guerra, professore, disoccupato, pugile, culturista e persino donna (due gemelline scrivono a Pasolini dandogli anche indicazioni per la conversazione telefonica nel caso rispondano i genitori, appellandosi alla cura che Teddi Reno ha per Rita Pavone). Gli aspiranti Gesù avevano una lingua incerta e poetica che non metteva bene a fuoco la realtà e aveva il “quasi” come cuscinetto: quasi biondo, quasi alto, quasi con gli occhi azzurri, ho 22 anni ma ne dimostro quasi 27, quasi Vittorio De Sica. Furono proprio quel «quasi» e quelle incertezze che diventavano surrealismo a far pensare a Pasolini che Frassineti – scrittore raffinatissimo, amato da Italo Calvino e Giorgio Manganelli – fosse l’uomo adatto a poterne ricavare qualcosa. Lui non ne fece nulla, e ora suo figlio Mimmo le ha regalate – col documentario – a noi, salvandole dall’oblio.

Un documento insolito. Perché quelle voci che supplicano d’essere Gesù per sfuggire al quotidiano potrebbero essere quelle dei nonni degli italiani che vanno ai talent, ma con una ragione superiore. Pasolini era una attrazione e una occasione. Il suo cinema per quanto difficile era popolare anche se non donava popolarità. Ma non aveva importanza. Le lettere dicevano: Pasolini, ovunque proteggi. E meglio ancora se con un film. Portami sul set, o donami una foto con autografo. Si mescolano il bisogno di uscire dalla massa con le prime rinunce alla vita privata, i supplicanti non avevano sovrastrutture, e nemmeno fissazione di fama, volevano solo essere visti da Pasolini e poi attraverso il suo film dal mondo che non li guardava. Usciva di casa l’Italia, prima con le lettere poi con i viaggi. Un paese ingenuo e rispettoso che si scusava per aver risposto all’appello «sempre che non rechi disturbo», dove il nord usava male il verbo avere, il sud quello essere, scriveva spesso «un attore» con l’apostrofo, si sentiva inadeguato ma si arrangiava. Era inadatto ma non smetteva di sperare. Una Italia che prescindeva pur di trovare un posto nel film che per tutti era «il favoloso mondo del cinema». C’era anche chi proponeva una idea per un film zavattiniano: «“Nino, l’immondezzaro”, personaggio equivoco, una molla umana. Un racconto strano che potrebbe divenire documento dell’eterna malignità. Ne parli con il suo produttore. Genere dello scritto: “Satanico”». Gesù fu poi interpretato dal catalano Enrique Irazoqui Levi. E Pasolini scartò anche un giovane attore non ancora famoso che si firmava Sparanero, prima di diventare Franco Nero ed essere amato da Quentin Tarantino.

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