mercoledì 12 ottobre 2022
Stimato da T.S. Eliot, amico di Ratzinger, il pensatore tedesco in un testo del 1966 parte dal logico Whitehead per arginare le pretese di scientismo, tecnica e nichilismo
Josef Pieper

Josef Pieper - archivio

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«Considerata nel suo complesso, la sua influenza dovrebbe operare nel senso di una ricollocazione della filosofia nel rango di una delle cose più importanti per ogni uomo colto e capace di pensare»: così il poeta T.S. Eliot definì l’opera del filosofo Josef Pieper, aggiungendo che l’obiettivo di una vera filosofia resta sempre quello di cogliere «la scienza e la saggezza ». Ed è esattamente questo il messaggio principale del volumetto Elogio della filosofia appena pubblicato dalle edizioni Ares (pagine 160, euro 16,00), con prefazione di Andrea Monda e postfazione di Antonio Livi. Per il filosofo tedesco, nato nel 1904 a Elte in Westfalia e morto nel 1997 a Münster, città nella cui università ha a lungo insegnato Antropologia filosofica, la filosofia è un’attività al contempo inutile e imprescindibile. Inutile perché gratuita e libera: «Il filosofare – scrive Pieper – non solo non serve di fatto a nulla, ma, assolutamente, non può e non deve servire a qualcosa!». Nel senso che non deve essere strumento particolare di una qualsiasi attività pratica, ma deve servire alla vita. « What is it all about? »: qual è il senso di tutto ciò? In questa domanda fondamentale condensava il senso della filosofia Alfred North Whitehead, il cofondatore della moderna logica matematica che nel 1941 lasciando gli studi universitari tenne ad Harvard un’ultima lezione sull’immortalità in cui disse: «L’esattezza è una truffa, un fuoco fatuo, un fantasma». Proprio colui che assieme a Bertrand Russell aveva scritto fra il 1910 e il 1913 i Principia Mathematica, alla fine della sua carriera ristabiliva una sorta di supremazia della filosofia sulla scienza. Nel suo volume Pieper più volte si rifà a Whitehead per ribadire la centralità dell’interrogativo filosofico che sin dalle origini costituisce l’essenza di ogni sforzo speculativo. «Filosofare – sintetizza Pieper – significa riflettere sul significato ultimo e profondo della totalità di ciò che ci viene incontro; e questo filosofare così inteso rappresenta un’occupazione non solo piena di senso, ma anzi necessaria, da cui un individuo spiritualmente vivo non può assolutamente esimersi ». Legato a Joseph Ratzinger, che lo chiamò «amico e maestro», avendolo conosciuto a Münster fra il 1963 e il 1966 dove si trovò a insegnare teologia dogmatica, Pieper pubblicava questo libro proprio nel 1966, in un’epoca in cui era molto forte l’influenza ideologica del marxismo, così come la preponderanza di uno scientismo che tendeva ad emarginare sempre più la filosofia. Ed era ben cosciente delle sfide che, allora come oggi, si presentano al pensiero. Così si chiedeva infatti: «Il filosofare, in quanto occupazione autenticamente umana, così come viene attaccato dalla pretesa totalitaria del mondo tecnico-pratico, non è forse minacciato, se non con maggiore perlomeno con altrettanta intensità, anche dal dogma nichilistico, secondo cui il mondo nella sua totalità è un assurdo, e tutto ciò che esiste merita di andare in rovina? Forse entrambe le minacce si ritrovano congiunte in qualche segreto punto di contatto». Ma le pagine del saggio, proprio dinanzi al clima apocalittico della Guerra fredda col rischio di conflitti nucleari, sono un contributo essenziale alla speranza che può emanare da una filosofia che vuole continuare a interrogarsi sul senso ultimo della realtà. Così come l’uomo è portato sempre e inevitabilmente a porsi queste domande senza mutilarle o censurarle, per Pieper «la filosofia come l’esistenza stessa possiedono la struttura della speranza». La filosofia è uno «spazio libero » che non può essere rinchiuso dalle mistificazioni del potere politico o dallo strapotere della tecnoscienza, è il luogo dell’ascolto e del silenzio e in questo senso non è diversa dalla contemplatio di cui parlavano i mistici. Vedere e ascoltare sono i due atteggiamenti che possono così tenere insieme l’approccio della fede e quello della razionalità, in barba a chi predicava, come Jaspers e Heidegger, l’impossibilità di un autentico filosofare da parte del credente. Resta sempre vivo il detto più antico giunto sino a noi dalla civiltà greca ed è la risposta di Anassagora alla domanda «A quale scopo ti trovi sulla terra?». Ecco la replica del filosofo: «Per osservare e contemplare il cielo e la disposizione del Tutto».

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