martedì 7 giugno 2022
Per il critico il romanzo di Gadda non è solo un capolavoro ma una sfida vinta su tutti i fronti a partire dalla capacità di rendere i luoghi, il palazzo e la campagna, veri e propri personaggi
Gadda e Piccioni nel 1963 a “L’Approdo T.V.”

Gadda e Piccioni nel 1963 a “L’Approdo T.V.” - Succedeoggi

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La recensione, di cui pubblichiamo qui ampi passaggi, a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, uscita in origine il 3 ottobre 1957 sulle colonne de "Il Popolo", è parte del volume «Col nuovo sole ti disturberò». Scritti, lettere, detti memorabili"(Succedeoggi, pagine 250, euro 20,90) che documenta la profonda amicizia tra Carlo Emilio Gadda e Leone Piccioni. Il volume contiene la corrispondenza, in gran parte inedita, che documenta il periodo romano di Gadda attraverso la prosa sarcastica, mordace, polemica, spesso drammatica, e articoli, saggi e interviste che Piccioni ha dedicato al narratore milanese. Il volume è curato da Silvia Zoppi Garampi, la prefazione è di Emanuele Trevi.

Le opere narrative – anche le poche belle – che capitano sotto gli occhi del recensore ogi in Italia, si presentano per lo più con caratteristiche e con problemi abbastanza semplici dal punto di vista critico. Si offrono inoltre con possibilità di essere raggruppate per molti collegamenti tra attori diversi, con poche influenze di solito non difficili da riscontrare, con partecipazione di carattere ideologico o di impegno stilistico che è facile individuare e descrivere. Insomma, nel più dei casi, la recensione appare strumento idoneo e sufficiente a dire di queste opere. Ma non è davvero questo il caso di un romanzo di tanto impegno e di tanto risultato come Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda che solleticherebbe il critico a tante mai indagini (e tutte singolari con scarsissime possibilità di collegamenti esterni), a tante mai iscrizioni all’ordine del giorno, a tanti mai pretesti di carattere stilistico, narrativo, psicologico, poetico, umano, culturale, linguistico da aver bisogno di uno spazio tanto più ampio e ben più confortabile di documenti (...). Ed è del resto la strada che la critica ha scelto, salvo rarissime eccezioni che hanno stupito non poco. Non solo, a mio parere, stupisce l’eventuale giudizio negativo dato all’insieme di questo romanzo, ma anche, almeno nell’ambito dell’articolo o della recensione giornalistica, la eventuale distinzione di parti, il meglio e il peggio, il bene e il meno bene, quando siamo di solito portati ad accogliere cordialmente cose tanto minori del nostro tempo narrativo (e, ahi noi, non solo narrativo): operucce o operettine, cosettine e cosettucce… Il lavoro di Gadda al Pasticciaccio ha una ufficiale data di nascita con il 1946.

Allora sulla bella edizione di quei tempi di “Letteratura” apparvero cinque puntate del romanzo. Quelle stesse parti appaiono assai rielaborate nella edizione di Garzanti e ristrette rispetto alla prima stesura. Un puntuale raffronto tenterebbe molto il lettore interessato. Il romanzo (è ormai noto) nasce come racconto a sfondo poliziesco, giallo: c’è stato un furto in un grande palazzo di via Merulana a Roma, subito dopo accade un delitto: è uccisa a scopo di rapina la giovane signora Liliana. Proprio presso di lei invitato a pranzo si recava di tanto in tanto il personaggio principale di questo libro, il commissario Ingravallo, portandosi dietro i malumori di tutta la sua solitudine. E a lui toccheranno le indagini. Molti sono gli sviluppi, le variazioni e le digressioni che il narratore si consente, le varie strade che via via batte, i personaggi che di tanto in tanto entrano in scena, i continui spunti polemici, la critica e la satira di costume su quei tempi, su quei metodi, e, più, su tutti i tempi e le società. Le accanite ricerche portano già a qualche frutto importante quando il romanzo si chiude, e non è da dire che si interrompa troppo bruscamente. Si conclude con un capitolo sul quale si dovrà poi tornare, lasciando in sospeso la vicenda quasi che al narratore non interessi tanto la conclusione romanzesca quanto la descrizione di un clima, di determinati personaggi, di un’epoca. Interprete principale resta dunque il commissario Ingravallo, possente figura, quella in cui forse Gadda si è riconosciuto di più, affidando a lui tanti di quegli stessi fastidi, occasioni di malumore, a dirla in breve motivi di scarsa felicità che forse legge in se stesso e dei quali anche Ingravallo patisce (...)

Ma la folla dei personaggi che esce dal romanzo è vasta e varia: restano nella mente uomini e donne, ci si ripensa a lettura finita e balzano vivi. Le donne, dalla Zamira, equivoco personaggio di campagna, alle tre ragazze raccolte dalla povera signora Liliana, alla Ines, alla Lavinia, alla Camilla, alla Tina, o gli uomini, dal cugino della Liliana allo scialbo marito, al povero commendatore sospettato inizialmente solo per qualche prosciutto recapitato da un fantomatico garzone, al parroco, alle altre figure che si incontrano a ogni pagina. Allo stesso livello di Ingravallo si pongono nel Pasticciaccio due altri personaggi veri: per la prima parte quel palazzo (al numero 219) di via Merulana; per la seconda la campagna romana verso i colli e l’Appia e l’Ardeatina tra il Torraccio e Marino. Ecco il palazzo monade di tutta una società, scale e scale, pianerottoli e pianerottoli e tutta una serie di ospiti diversi di ogni età, di ogni tipo, con la portiera intrigante e chiacchierona pur con tanta apparente buona volontà, e il quartiere che ruota intorno le botteghe e i bottegai, il mercato. Gadda descrive ma non si limita a questo, interviene con tocchi di pennello che sanno molto di giudizio morale. Non ama, infatti, quel che descrive. E preferisce porlo in rapporto al clima di un’epoca, dopo il successo del fascismo, non molto dopo l’insediamento della dittatura con frequenti intonazioni polemiche anche molto dure, dettate da indignazione traboccante. (...) La campagna romana, nella seconda parte. Straordinaria collocazione del paesaggio, orientazione esattissima e poetica, con ogni contorno precisato e reso vivo, con la curiosità della “guida”, collegata all’impeto di una profonda emozione poetica. Colori di albe, di notti che stanno per declinare, di malinconiche piogge, di pigri inizi di primavera, e tutta una diversa vita rispetto a quella della città, con altri singolari personaggi sui quali la polizia ha giuste ragioni per indagare. La prima parte risulta, dunque, dalla elaborazione dei capitoli già apparsi in rivista nel 1946. L’elaborazione ha fruttato molto, ha fuso di più il linguaggio, lo ha unito, ha riavvicinato le parti, e l’effetto complessivo di queste prime centocinquanta pagine è di una connessione narrativa più stretta: possono forse apparire come le più funzionali ai fini del romanzo. Ma che maggiore possibilità di invenzione nella seconda parte! È qui il segno della vera e attuale maturità di Gadda, la sigla della sua più alta invenzione. Episodi, scorci o pagine, talvolta misure perfette di parti o di capitoli che resteranno. Si prenda il capitolo X, l’ultimo del romanzo. Di così conclusa costruzione e di emozione così forte, per trovarne dei simili bisogna andare assai indietro nel tempo a rari capolavori della nostra tradizione. Diviso in tre parti, e la prima una pittura perfetta. È il mercato di piazza Vittorio: l’agente detto il Biondone vuol pizzicare senza chiasso un sospettato, che se ne sta lì tranquillo in principio, e poi via via – accortosene – sempre più in ansia, a vendere la porchetta e a gridare del suo prodotto i grandi meriti. Tutto è condotto con una bravura che non è possibile restituire per via indiretta al lettore. La seconda parte del capitolo riporta in scena nella fase culminante il nostro don Ciccio Ingravallo; e la terza nell’interrogatorio a casa della Tina, svela un interno di grande potenza drammatica, un interno di povertà estrema, di squallore, mentre un vecchio a letto è in punto di morte, e attorno a lui si dipanano e si aggrovigliano ancora fili tesi dei vivi, svolti o difesi con un accanimento tutto di sangue.

Sono pagine che basterebbero da sole a fare di un’opera intera un capolavoro. (...) S’è fatto un gran parlare – e molto se ne potrebbe ancora dire – dei mezzi vivi e diretti che Gadda adopera per riuscire a far sì che la sua pagina risponda come una partitura alle sue molteplici occorrenze. Lingua corrente e modi dialettali (...) e insieme modi desueti ormai, aulici, specificatamente letterari… Patiti del dialetto non siamo stati mai, e certe prove recenti di pertinace uso dialettale, hanno finito per stancarci, ma tutt’altra cosa è per Gadda. Questi mezzi stilistici e linguistici sono tanti strumenti necessari alla partitura, a far l’armonia e il contrappunto, a dar voce ai primi strumenti e alle masse di archi o di fiati, a fare le prime e le seconde parti, il coro e i solisti. Non si poteva se non attraverso questa via rischiosissima e solo in lui (nessuno s’illuda) splendidamente vittoriosa, arrivare a tanto.

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