domenica 3 aprile 2011
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Era il 12 novembre 1961 e Montini chiudeva così il discorso con cui lanciava la sua diocesi nell’impresa di costruire in pochi anni altre 22 chiese nuove: «Milano cresce, cresce; continuamente, rapidamente, oltre ogni previsione, oltre la nostra già tesa e già sofferente possibilità di pareggiare con la dovuta proporzione l’assistenza pastorale ai bisogni dei nuovi quartieri…», spiegava ai fedeli. Solo l’anno prima erano arrivate dalle regioni del sud 60mila persone, che si erano andate sistemando «in nuove e dilaganti zone abitate». Crescevano e si moltiplicavano i palazzi, si allungavano le strade, ma agli occhi del vescovo quella nuova Milano rischiava di restare un deserto in cui gli uomini erano abbandonati a sé stessi. La premura di Montini è semplicemente quella del pastore verso i suoi fedeli, non c’è nessuna ansia di garantirsi un’egemonia "culturale" nei nuovi quartieri: «Sentiamo il dovere di concorrere senza stanchezza e senza lamento, con civile e cristiana solidarietà, allo sviluppo eccezionale della nostra metropoli, offrendole l’assistenza religiosa e morale di tante nuove parrocchie». Nell’arco dei suoi otto anni e mezzo a Milano, Montini mise in cantiere, e in gran parte portò a termine, ben 135 chiese in tutta la diocesi. Una strategia lanciata dal suo predecessore, il cardinale Schuster, e che il futuro Papa perseguì sentendo tutta l’urgenza di quel momento storico. La Chiesa apriva una nuova terra di missione in questi nuovi immensi agglomerati che sorgevano ai margini delle città. Era un percorso duro perché, prima di trovare i mezzi per costruire le nuove chiese, i parroci vivevano accampati, a volte in condizioni peggiori dei loro fedeli. «Io sono fiero di voi – disse loro Montini nel 1962 –, fiero di avere sacerdoti che accettano la vita pastorale nelle vostre condizioni, che prendono come onore l’essere posti allo sbaraglio, con responsabilità formidabili, senza mezzi, quasi mendicanti in alloggi provvisori e disagiati. Questi giorni li ricorderete quando avrete la vostra chiesa e la parrocchia sarà formata… questa è la vostra fortuna: potrete creare liberamente la vostra parrocchia, dando importanza a quello che è essenziale nella vita religiosa: il dogma».In quell’avverbio «liberamente» c’è tutto l’approccio di Montini alla sfida delle nuove chiese. Nella Milano che in quegli anni vedeva in azione alcuni tra i più grandi talenti dell’architettura europea, l’arcivescovo decide di dar loro credito e di affidare loro alcuni importanti progetti. Montini insomma, a differenza del suo predecessore, sceglieva di aprire alla modernità. Le sue aspettative erano alte: «L’arte si appresta ai cantieri. Questo affacciarsi dell’arte sulle soglie dei nostri lavori è pieno di emozioni». Ma erano anche chiare le sue raccomandazioni: «Vogliamo presentare un’architettura libera nell’ispirazione moderna, ma contenuta in una sana democrazia edilizia: non è tempo di fare monumenti, mosaici, decorazioni costose. È tempo di salvare con costruzione semplice la fede del nostro popolo» (1961). Il primo edificio consacrato da Montini un anno dopo il suo ingresso in città sembra proporsi come incarnazione di queste sue raccomandazioni. La chiesa della Madonna dei Poveri a Baggio, nel cuore di un nuovo quartiere operaio, venne affidata alla coppia di architetti Luigi Figini e Gino Pollini che si erano resi famosi nel mondo per gli stabilimenti Olivetti a Ivrea. Figini e Pollini erano eredi del razionalismo italiano e per la Madonna dei Poveri realizzarono, nel cuore di quel quartiere di «case minime», una chiesa di una semplicità estrema, a costi ridotti, con una struttura in cemento armato.Ma sulla facciata a capanna, con un frontone appena accennato, i due architetti aprirono dei grandi inserti di laterizio lombardo, come elemento semplicissimo di decorazione. L’edificio di Figini e Pollini è straordinario nei suoi equilibri, ma non si concede nessun fronzolo. È quasi rude nella sua nudità, ma commuove per quell’accensione improvvisa di luce che piove dall’alto sul presbiterio: un tiburio quadrato, chiuso nella parte superiore da una griglia di vetri anch’essi quadrati, è l’unica semplicissima concessione che gli architetti si permettono, per richiamare, senza enfasi, la centralità dell’altare e del tabernacolo. Una soluzione a cui i due architetti fecero ricorso anche per l’altra chiesa da loro progettata, quella dei Santi Giovanni e Paolo ad Affori. Ed è commovente anche la scelta di fasciare lo stesso presbiterio con un muro esagonale dipinto di rosa, quasi a riecheggiare la preziosità di ciò a cui quel luogo è destinato. L’anno successivo Montini si trova subito a consacrare la chiesa più azzardata e più discussa. A Baranzate, paese in grande crescita subito a nord di Milano, un’altra coppia di architetti famosi, Angelo Mangiarotti e Bruno Morassutti, affidandosi all’esperienza di un grande ingegnere strutturista come Aldo Favini, avevano progettato una «chiesa di vetro». Quattro agili pilastri all’interno reggono un grande, semplice tetto piatto prefabbricato che appare leggero e sospeso. Attorno, le pareti sono superfici ininterrotte di vetri schermati da fogli bianchissimi di polistirolo espanso. «È possibile che il vostro vescovo benedica una chiesa così? – disse Montini durante la predica della messa per la consacrazione della chiesa, nel 1957 –. È possibile perché io scorgo nella nuova costruzione un profondo simbolismo, che richiama all’essenza della casa del Signore, cioè luogo di riunione dove gli uomini elevano la loro mente a Dio e si ritrovano fratelli. Questa chiesa di vetro ha infatti un suo linguaggio che può essere ricavato dall’Apocalisse, dove è detto: Vidi civitatem sanctam descendentem de coelo; le sue pareti – continua l’Apocalisse – erano di cristallo». Ma Montini si sporge anche oltre e difende il criterio che ha portato ad affidare ad architetti d’avanguardia la nuova parrocchia dedicata alla Madonna della Misericordia a Baranzate: «La chiesa poi presenta una novità e la novità rientra nel novero delle cose sacre: la religione, quando è viva, non solo non esclude la novità, ma la vuole, la esige, la cerca, la sa ricavare dall’anima. E io sono qui a tendere le braccia a tutte le novità che l’arte mi dà. Non ho nessuna prevenzione contro le novità, purché la novità non sia capriccio». Non ci sono solo gli architetti razionalisti nella squadra chiamata al lavoro da Montini. Ci sono anche quelli di cultura novecentista, che hanno in sé una più forte vocazione monumentale. Ma che con Montini accettano di fare i conti con una necessaria semplicità. C’è Giovanni Muzio, che aveva conosciuto una grande fortuna sotto il fascismo, e che tra il 1956 e il 1958 lavora al cantiere della chiesa di San Giovanni Battista della Creta, al Giambellino: un edificio basso, con una facciata tutta in laterizio, con i mattoni che compongono delle greche, delicatissimi motivi decorativi. Sopra, una tettoia libera e sorprendentemente slanciata verso l’alto protegge l’ingresso dei fedeli. Ma più di Muzio nei cantieri di Montini ebbe un ruolo importante Gio Ponti, architetto e designer consacrato a livello mondiale, che a Milano realizzò nell’arco di dieci anni tre chiese. La prima, tra 1955 e 1960, è quella di San Luca a Lambrate. Una chiesa semplicissima, incassata tra i nuovi palazzi, e con pochissimo spazio attorno. Per questo Ponti decise di sollevarla di qualche metro rispetto al livello della strada e progettò una facciata concava, protetta da una grande tettoia che dà l’idea di una grande capanna aperta sulla città. La facciata è coperta da piastrelle in gres ceramico, elemento povero impreziosito semplicemente dalla forma a diamante che Ponti aveva disegnato. Bellissimo e luminoso l’interno con la vasta parete di fondo dipinta a fasce bianche e azzurre come a richiamare la memoria del romanico lombardo. Ponti qualche anno dopo venne chiamato al cantiere di una parrocchia, che era la sua parrocchia, situata in zona più centrale, zona Magenta: San Francesco al Fopponino è un progetto più ambizioso, con misure più dilatate, in particolare nell’altezza della navata. Il motivo del diamante si rinnova ovunque, dalle piccole piastrelle, alle grandi finestre (alcune aperte semplicemente sul cielo), al portale. Ma il tutto sempre dentro i binari di una sobrietà francescana. Era un cantiere a cui Montini tenne moltissimo e che visitò tre volte, a partire dalla cerimonia di posa della prima pietra, il 4 maggio 1961. Gio Ponti successivamente realizzerà un’altra bellissima chiesa, quella dedicata a Santa Maria Annunciata dell’ospedale San Carlo: un edificio suggestivo, dall’andamento lungo e inclinato proprio di una nave.  Nel grande sforzo per dotare Milano delle chiese di cui aveva bisogno, Montini affidò un compito strategico al Comitato delle nuove chiese, alla cui presidenza aveva chiamato Enrico Mattei che proprio in quegli anni stava costruendo a San Donato, alle porte di Milano, il quartier generale dell’Eni.Quando nel 1962 Mattei morì in circostanze tragiche e ancora misteriose, Montini prese la presidenza del Comitato e chiamò Ignazio Gardella, altro grande nome dell’architettura milanese, a progettare la chiesa «del villaggio» di San Donato. Nella dedica della chiesa a Sant’Enrico, Montini aveva voluto rendere un omaggio a Mattei. Da vera chiesa del villaggio, Gardella concepì un edificio di un’umiltà estrema, a navata unica e a forma di grande capanna protetta da un tetto basso e molto sporgente. I muri di cemento armato sono abbelliti da un semplice motivo decorativo lineare di pietra bianca che percorre la chiesa in tutto il suo perimetro, all’esterno come all’interno. E all’interno la luce piove dall’alto da due finestrate contigue, che garantiscono armonia, ritmo e leggerezza. Il 23 maggio 1963 Montini presenziava all’ennesima prima pietra, quella di San Gregorio Barbarigo alla Barona. Sarebbe stata l’ultima, perché il 21 giugno veniva eletto Papa.
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