martedì 9 giugno 2015
​Il ricordo a 20 anni dalla morte: quel tocco "rubato", il misticismo e il gran rifiuto di esibirsi in Italia.
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«Chissà se verrà! Chissà se questa sera il Maestro suonerà!». Assenza più acuta presenza: è la cifra che ha caratterizzato gran parte del percorso artistico ed esistenziale di Arturo Benedetti Michelangeli. Sono trascorsi vent’anni dalla morte (si spense il 12 giugno 1995) del grande pianista e spesso alcuni hanno pensato di riempire il vuoto della sua assenza con leggende, frutto di pura invenzione, arrivando persino alla menzogna. Destino avverso dell’enfant prodige bresciano, diplomato prestissimo e con il sacro fuoco dentro a quattordici anni (nel 1934 al Conservatorio di Milano) e che a diciannove, al concorso internazionale di Ginevra, venne salutato dal grande Alfred Cortot con il preveggente: «È nato il nuovo Liszt ». La gloria la guadagnò sul palco anche grazie al “rubato”, quel lieve anticipo della mano sinistra su quella destra, e alla ricerca ossessiva della purezza del suono che gli hanno permesso di donare interpretazioni uniche di Beethoven, Chopin, Schumann, Liszt, Debussy, Ravel. Ma critici e storici vendicativi hanno scambiato il suo ascetismo, che ne fa un mistico della musica, per superbia, e non gliel’hanno perdonata. Eppure avrebbero dovuto comprendere l’artista che aveva ricordato: «Essere un pianista e un musicista non è una professione. È una filosofia, una concezione di vita che non può basarsi né sulle buone intenzioni, né sul talento naturale. Bisogna avere uno spirito di sacrificio inimmaginabile».  Avvicinarsi all’uomo è stato dono per pochi eletti. E non per quella che Franco Battiato canta (in Mesopotamia) come «la misantropia celeste in Benedetti Michelangeli», ma piuttosto per una sensibilità e una forza morale che lo ha condotto a un mai sbandierato isolamento spirituale. Uno stile di vita appartato, essenziale, corrispondente al gesto sulla tastiera come nello scambio umano, descritto con delicatezza da Armando Torno in Un incontro (Morcelliana). Uno di questi privilegiati è stato il pittore e scultore trentino Livio Conta che negli anni ’70 ebbe modo di ospitare il Maestro nella sua casa di Monclassico ( Val di Sole). «Michelangeli viveva qui vicino, in Val di Rabbi. Ci siamo trovati subito d’accordo su tanti aspetti, a cominciare dalla condivisione del silenzio. Ma anche delle serate in allegria che finivano con brindisi a vino e whisky. Parlando di musica, mi confessò che il suo compositore preferito era Ravel. Mi ha lasciato due doni che il tempo non potrà cancellare: ha voluto fare il padrino di battesimo di mio figlio Giorgio (pittore e scultore anche lui) e mi ha permesso di ritrarlo mentre suonava il piano». Una quarantina di opere, tra quadri e disegni, dedicati al Maestro che nel 1973 lo invitò ad esporli a Parigi: «Un ritratto è diventato la copertina del disco Schumann Carnaval op. 9 per la Emi», ricorda Conta, che ha disegnato il volto del pianista mentre suona, ad occhi chiusi.  In estate a Rabbi ospitava giovani pianisti per lezioni private, rigorosamente gratuite. «Per questo ancora i suoi allievi provano devozione e riconoscenza. A molti di loro ha cambiato la vita, specie quelli che arrivavano dall’Est europeo, dalla Cina e dal Sudamerica», spiega Stefano Biosa, animatore con Marco Bizzarini del Centro di documentazione Arturo Benedetti Michelangeli. Il prezioso archivio bresciano sopravvive nonostante non abbia mai ricevuto contributi pubblici dalla sua fondazione, il 1999. «Del resto siamo gli studiosi e i seguaci del pianista che nella storia della musica classica ha tenuto il maggior numero di concerti di beneficenza – sottolinea Biosa –. Il ricavato dalla vendita dei biglietti per i suoi concerti, sempre tutti esauriti, è servito per realizzare progetti a sostegno delle famiglie dei profughi del Vietnam, per costruire padiglioni di ospedali per l’infanzia. C’è un lebbrosario nel Ciad che porta il suo nome. La musica grazie a lui è entrata nei conventi, come quell’organo donato alle suore di Arezzo». Nell’aretino, nel santuario francescano dellaVerna, Benedetti Michelangeli si recò la prima volta giovanissimo, tornandoci ogni volta che aveva bisogno di meditare e di confrontarsi con padre Virgilio Guidi, compositore e organista del monastero.  I suoi frequenti ritiri spirituali, ma anche l’aver tenuto un rapporto stretto con Giovanni XXIII e Paolo VI, hanno accresciuto la fama del “gran sacerdote”, come lo ha definito Uto Ughi. «Il francescanesimo è una componente della personalità di Benedetti Michelangeli, ma anche un espediente per uno dei suoi giochi preferiti: ci sono programmi di concerti che tenne negli Stati Uniti, alla fine degli anni ’40, in cui con quell’austera serietà di cui era impossibile dubitare convinse gli organizzatori a scrivere che era “un diretto discendente di san Francesco d’Assisi e di Jacopone da Todi”». Questi e altri scherzi smitizzano l’aura ombrosa del genio, che alternava letture impegnate al suo carissimo “Topolino”. L’amore per i bambini, specie i disabili, l’aveva convinto il 13 giugno 1987 ad accettare il concerto nella Sala Nervi: il ricavato sarebbe andato all’ospedale San Giovanni Battista alla Magliana. Oltre diecimila furono i paganti, per un incasso vicino al miliardo e mezzo di lire. Soldi che non giunsero mai ai destinatari e, dato che dell’organizzazione faceva parte l’Ordine dei Cavalieri di Malta, Benedetti Michelangeli come prima cosa pubblicamente informò della restituzione della Croce che gli era stata conferita anni prima. Un gran rifiuto, come  quello delle otto lauree honoris causa: «E che cosa me ne faccio della laurea?».  Stesso diniego all’offerta reiterata del cavalierato della Repubblica: «No grazie, sono monarchico » rispose a più riprese. Non era una provocazione: «I Savoia gli stavano davvero a cuore – interviene Biosa – perché lo avevano molto aiutato. Benedetti Michelangeli quando poteva suonava volentieri in privato per la regina Maria José». Episodi che alimentarono la leggenda – infondata – dell’“antitalianismo”, specie da quando, nel 1968, con il fallimento della sua casa discografica e il conseguente dissesto finanziario, lanciò l’anatema: «Non suonerò mai più in Italia! ». E così è stato. Solo in via eccezionale, nel 1980, accettò di tenere un concerto di beneficenza a Brescia, dedicato a papa Montini, poi non ha più messo mano a una tastiera in pubblico su suolo italiano. Continuò a suonare fino al maggio del ’93 (ultimo concerto ad Amburgo) a studiare e ad alimentare la sua assenza più acuta presenza nei suoi eremi di Rabbi e nell’elvetica Pura, dove è sepolto. L’ultimo saluto è stato per i bambini, i figli dei medici della clinica di Lugano, i quali si scusavano per la stanza priva di vista che gli avevano assegnato. Ma il Maestro li congedò con un sorriso: «Non preoccupatevi, la mia testa è piena di musica».
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